Andrea Vannucci, professore a contratto di programmazione, organizzazione e gestione delle aziende sanitarie DISM UNISI
La riforma della sanità territoriale è stata invocata da molti durante la pandemia. Pazienti che avrebbero dovuto essere trattati a casa sono stati portati in ospedale con le conseguenze che ben conosciamo. È anche per questo che con il PNRR è stato deciso di destinare una cospicua parte d’investimenti al rinnovamento o alla realizzazione di un numero congruo di strutture territoriali, come le case e gli ospedali di comunità, in grado di minimizzare la quota di domanda inappropriata agli ospedali. Tuttavia senza iniziative politiche forti e coerenti questo investimento potrebbe trasformarsi in un’occasione perduta
Nel marzo 2022 durante una visita a Firenze del Ministro della Salute Il presidente Giani annunciò che dei fondi PNRR per potenziare l’assistenza e la rete sanitaria territoriale sarebbero stati impiegati 173 ml dei fondi PNRR destinati alla Toscana: 104 alle Case di comunità e 12,6 per le Centrali operative territoriali.
C’era però un punto debole che ancora non è risolto: il PNRR non prevede investimenti per il personale, con la sola eccezione per quello dell’assistenza domiciliare; i professionisti necessari alle Case di comunità sono numerosi e non si può pensare di sottrarli alle strutture ospedaliere dove c’è già carenza di organici. Inoltre la tipologia di risorse professionali assegnate ai servizi della rinnovata rete territoriale come prospettata anche nel DM 77 non si discosta poi molto dalla tradizione dei compartimenti stagni e ciò non faciliterà scelte efficienti.
In Toscana dopo un anno dagli annunci non ci sono chiare informazioni su come procede il cronoprogramma degli investimenti e comunque resta il fatto che non sembra saggio costruire gli edifici senza pensare a come farli funzionare per erogare i servizi auspicati.
A rinforzare le incertezze c’è poi che a livello governativo non c’è traccia nel Documento di economia e finanza appena varato della applicazione del DM 77. Nel Def si parla di payback per i dispositivi medici, di incentivi per rispondere alla carenza di personale nei servizi di emergenza-urgenza ospedalieri, ma non si dice nulla di sanità territoriale e di operatività delle Case e degli Ospedali di comunità previsti dal PNRR.
Per il triennio di programmazione 2023-2025, le risorse per il fabbisogno sanitario nazionale aumenteranno dai 128,8 miliardi già previsti per il 2023 ai 131,4 miliardi del 2025. Non sorprende che, con le previsioni di crescita del governo, la spesa sanitaria in termini di Pil cali al 6,2 per cento nel 2025, per poi riprendere progressivamente a crescere. Ma il 7 per cento del Pil verrà raggiunto solo tra il 2040 e il 2045, una chiara indicazione che anche per i prossimi anni non ci si potranno aspettare grandi incrementi di risorse per finanziare la spesa corrente del SSN.
Il tema del finanziamento del fabbisogno sanitario è cruciale per capire se e come il governo vorrà affrontare la riforma della sanità territoriale, una questione che si intreccia con la realizzazione degli obiettivi del PNRR.
All’interno di questa cornice ci attendono due imprese se vogliamo portare a casa qualche risultato di significato: disporre di un sistema che sia attrattivo per i professionisti e convincente, perché partecipato, per i cittadini.
Attirare i professionisti
Ci sembra ovvio che nei futuri team di cure di prossimità debbano inserirsi i medici di medicina generale: magari con una nuova formazione, che dia la stessa dignità in termini di specializzazione alla medicina generale, attirando così più giovani neolaureati.
A quanto si legge nel documento del European Observatory on Health Systems and Policies “Strengthening primary care in Europe: How to increase the attractiveness of primary care for medical students and primary care physicians?” l’imperativo di rafforzare le cure primarie non è solo un nostro problema, dato che molti altri paesi in Europa lottano con le carenze e la cattiva distribuzione geografica dei medici di medicina generale.
Una delle cause sembra essere la percezione tra gli studenti di medicina e i medici che la medicina generale non è un’opzione di carriera “attraente”. Nella maggior parte dei contesti ciò è rafforzato da differenze retributive e da uno status professionale, e quindi sociale, percepito come più basso tra i medici generici che non tra i medici specialisti. Si tratta tra l’altro di una percezione inesatta perché regolarmente nelle indagini che vengono fatte in Italia sull’apprezzamento o meno dei servizi sanitari i medici di famiglia risultano regolarmente al primo posto.
Le strategie che in modo provato sono efficaci per migliorare l’attrattiva dei medici per l’assistenza sanitaria di base sono per il momento frammentarie, ma una serie di interventi hanno dimostrato di funzionare se si cambia la formazione medica e le condizioni di lavoro, si innovano i modelli di cure primarie e si migliora la pianificazione dell’impiego della forza lavoro.
La nostra politica sanitaria, in piena sinergia tra il livello centrale e quelli locali, anziché insistere a costruire architetture organizzative di dubbia utilità dovrebbe studiare queste esperienze che hanno avuto successo e cercare di riprodurle nel nostro contesto. Ci sono anche evidenze che sono possibili strategie che possono aiutare ad attirare i medici nelle aree rurali e remote. Questi interventi, necessari ed urgenti anche qua da noi, sono stati, nelle esperienze riportate in letteratura, mirati e diversificati per coprire le varie fasi della vita professionale di un medico di famiglia, per migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata e ridurre l’isolamento professionale.
Il rafforzamento della pratica della medicina generale richiede una strategia sfaccettata che impieghi una serie di misure e si rivolga non solo agli studenti di medicina e ai medici, ma anche agli infermieri e ad altre professioni, ai pazienti e al pubblico in generale. L’elaborazione di una tale strategia richiede un’ottima comprensione del contesto locale e la capacità di valutare puntualmente l’efficacia dei vari interventi.
Questo approccio, promettente in termini di risultati, potrebbe essere ostacolato dal nostro attuale assetto normativo e dai nostri riferimenti contrattuali rigidi e non si confà alla persistenza di contrattazioni nazionali.
La lettura dell’articolo “The Race to Retain Healthcare Workers: A Systematic Review on Factors that Impact Retention of Nurses and Physicians in Hospitals” (Neeltje de Vries et Al. – Journal of Health Care Organization, Provision, and Financing – 2023) ci conferma come la carenza di operatori sanitari sia un problema crescente in tutto il mondo e come a seguito della pandemia di COVID-19 infermieri e medici siano diventati più vulnerabili. I principali fattori per decidere di scegliere e poi non lasciare il posto di lavoro risultano essere la soddisfazione che ne deriva, lo sviluppo della carriera e l’equilibrio tra lavoro e vita privata.
Come ci ricorda Daniele Piacentini, docente dell’Università Cattolica e Direttore Risorse Umane del Policlinico Gemelli, “gestire professionisti implica un confronto diretto con persone con elevato grado di istruzione, in possesso di conoscenze specialistiche non facilmente acquisibili e valutabili dall’organizzazione, coscienti che il ruolo ricoperto è cruciale per l’organizzazione e per assicurare qualità dei percorsi di diagnosi e cura”.
Sempre Piacentini scrive che se definiamo la motivazione, come un’energia individuale interna in grado di attivare e mantenere una costante azione orientata e coerente con gli obiettivi sia individuali sia dell’organizzazione, dovuta ad una combinazione di bisogni e desideri personali in relazione al contesto organizzativo, non c’è dubbio che per i professionisti la motivazione è determinata in modo principale da fattori intrinseci al lavoro (qualità e caratteristiche della attività, riconoscimento, possibilità di crescita), mentre quelli estrinseci (retribuzione, ambiente di lavoro sicuro, benefit) hanno al massimo un effetto non-demotivante. Quest’ultimi possono essere leve in grado di funzionare nel breve periodo, generare soddisfazione ma non quella motivazione che è necessaria nel medio-lungo termine per stabilizzare il sistema.
Alcuni dissentiranno, ma non è sbagliato pensare che i riconoscimenti economici sono una scorciatoia costosa per orientare il comportamento dei professionisti nel breve termine, che raramente pagano in sanità sia perché non rispondono alle reali aspettative dei professionisti sia perché richiedono importanti risorse economiche che non sono compatibili con quelle disponibili.
I professionisti, sono motivati principalmente da lavori interessanti, dalla possibilità di crescere, di apprendere cose nuove, dal lavorare in contesti dove possono accedere a tecnologie che gli consentono di sviluppare le loro competenze, raggiungere risultati professionali appaganti, poter lavorare insieme a colleghi di cui hanno stima e poi anche lavorare laddove l’innovazione è favorita.
È questo che chi indirizza la politica della sanità e chi la mette in atto deve imparare a fare bene.
Per onestà dobbiamo però ricordare che se si vuole motivare un professionista è vero che non basta agire sui fattori estrinseci, ma è altrettanto vero che se i fattori estrinseci non sono gestiti e sono percepiti come al di sotto di un livello di accettabilità i professionisti non saranno in alcun modo motivabili.
C’è poi un altro punto: ci sono due schieramenti opposti che argomentano sulla necessità che i medici di medicina generale rimangano indipendenti o diventino dirigenti del SSN. La discussione è sostanzialmente futile perché non è uno status piuttosto che l’altro che può garantire la loro motivazione ma un adeguato contesto di politiche e di gestione dei territori o, per dirla meglio, delle comunità.
I medici di medicina generale vengono confinanti sostanzialmente nella dimensione di un rapporto di prestazione professionale mentre dobbiamo finalmente decidere che entrano a far parte di una comunità che condivide valori, obiettivi e cultura. Una comunità nella quale non solo è consentito, ma anzi è favorito, un alto grado di libertà nel lavoro (e quindi di responsabilità), con possibilità di applicare le competenze in modo discrezionale, seppur in maniera cooperativa, nel rispetto delle linee guida e dei valori al fine di erogare cure di qualità, in modo efficiente e sostenibile.
Convincere i cittadini
Scriveva Peter Block “Sistemi organizzati e professionalizzati sono capaci di erogare servizi, ma solo una comunità è capace di erogare cura.”
Il coinvolgimento dei pazienti e dei cittadini sta mettendo radici in una serie di organizzazioni sanitarie come mostrano numerose esperienze a livello internazionale e nazionale. Le competenze locali stanno crescendo, così come la comprensione degli elementi chiave che facilitano la creazione di organizzazioni capaci di coinvolgimento a livello locale.
Si parla oggi di ecosistemi per intendere comunità di individui che interagiscono con il loro ambiente e sono allo stesso tempo un tutto e una parte di un sistema più ampio. Nel settore sanitario una prospettiva ecosistemica prevede il coinvolgimento dei pazienti e dei cittadini e ci ricorda che l’assistenza sanitaria, nella sua essenza, riguarda le relazioni tra le persone. Questa prospettiva evidenzia anche l’idea che queste relazioni interagiscono con, e sono influenzate da, il loro ambiente (ad esempio, comunità, ambienti economici e politici, organizzazioni e sistemi sanitari).
A livello individuale, tutti i partecipanti devono scoprire e sviluppare le proprie competenze, abilità e risorse, per potersi impegnare in relazioni produttive con persone che hanno interessi, conoscenze e prospettive diverse. Ciò include la convinzione che ogni individuo apporta competenze preziose e complementari (ad esempio, la conoscenza basata sull’esperienza di vivere con una malattia come paziente, le capacità diagnostiche e l’esperienza clinica dei professionisti sanitari, i metodi d’indagine di un ricercatore, l’esperienza di gestione di un manager). Ne consegue che lavorare in partnership richiede anche la capacità di vedere i problemi da più prospettive, di affrontare l’incertezza e di condividere leadership e potere.
Un esempio di ecosistema nel nostro ordinamento potrebbe essere tipicamente il Distretto.
Purtroppoancheil DM77 continua a concepire il Distretto come un’articolazione organizzativo-funzionale dell’Azienda Sanitaria Locale sul territorio; un modello dove i servizi vengono “calati” secondo silos organizzativi, anziché venir progettati e costruiti a partire dalla partecipazione, dai bisogni e dalle risorse delle diverse comunità che si differenziano per criteri geografici, sociali, culturali, organizzativi ed epidemiologici. Anche i cittadini che fanno volontariato, così come tutto il Terzo Settore, vengono considerati in chiave eminentemente prestazionale: non se ne riconoscono le potenzialità di innovazione, di anticipazione, di capacità di incarnarsi nella comunità locale partecipando e portando ricchezza nell’ecosistema.
Eppure non mancano ormai in letteratura esempi dell’ampia varietà di ruoli che i pazienti possono svolgere nel sistema sanitario: pianificazione, progettazione, consulenza, indagine, valutazione e formazione. Sempre più spesso, le istituzioni sanitarie chiedono ai pazienti e ai familiari non solo di essere una “voce intorno al tavolo”, ma di assumere ruoli di leadership. In questo contesto, l’arruolamento e la preparazione dei pazienti e delle famiglie sono fondamentali. Il reclutamento inizia con un mandato definito e modalità di impegno, così come ruoli e responsabilità rigorosamente chiari per loro e per i professionisti con cui collaboreranno. La capacità e lo spazio per definire meglio questi ruoli e responsabilità stanno aumentando, con la consapevolezza che le forme di conoscenza possono essere complementari e le competenze non sono strettamente riservate ai professionisti. I pazienti e i familiari possono agire come mediatori di conoscenza, collegando e traducendo la conoscenza tra le comunità nell’ecosistema sanitario, ma possono anche ridefinire le priorità apportando soluzioni pragmatiche alle sfide del sistema sanitario.
Queste sono le sfide; è bene che coloro che si preoccupano del declino del sistema sanitario, anche in Toscana, ne siano consapevoli e siano pronti a vincerle. Sennò i cittadini cercheranno soluzioni individuali, il sistema si avvierà verso un razionamento, magari implicito, delle sue prestazioni, la produzione di salute non progredirà e la spesa globale per le cure aumenterà. C’è oggi in Italia un pensiero politico, culturale ed economico orientato a spingere in questa direzione che è pericolosa per il bene comune ma che può ancora essere contrastata efficacemente.