Maurizio Mannocci Galeotti – Palliativista, USL Toscana Centro
Nel 1997, la OMS ha suggerito un cambio di paradigma della definizione di Alma Ata aggiungendo la variabilità dello stato di benessere e una quarta dimensione della salute: la Spiritualità.
La Psicologia e la Spiritualità sono così diverse fra loro da essere complementari a fine vita, unite dalla Dimensione Esistenziale per stabilire una comunione fra il terapeuta (il sano, l’invincibile potente e vivo) e il sofferente (il malato, il debole senza più potere neppure su sé stesso). Entrambi vedono i bisogni di riflesso nello stesso specchio, ma in maniera diversa. La dimensione esistenziale della sofferenza nel tempo ultimo è originale per ognuno di noi, come percezione del proprio sé interiore. Per questo si necessita di un terapeuta con una propria Spiritualità, coltivata e vissuta anche fuori dal lavoro, che gli permetta di rafforzare emotivamente il Sofferente nel fine vita, aprendolo all’irrazionale. La Spiritualità non è scienza è “Esperienza”, ha meno bisogno di concetti e più di “vissuti insieme”: a me stesso, agli altri e per alcuni al mio Dio o al mio imperituro sovrannaturale. L’opposto della morte che separa.
Sono qui a condividere ciò che ho appreso realizzando cure palliative per decenni e come queste mi hanno migliorato; sono un medico che cerca di limitare la sofferenza degli altri, come di sé stesso. Il “come” mi relaziono con la mia mortalità-finitudine, influisce moltissimo sulla mia capacità di essere un buon terapeuta nella relazione con il sofferente senza più un futuro.
Per poter essere terapeutiche le Cure Palliative devono essere una “Medicina” che non può prescindere dall’Incontro fra due persone, una che va e una che resta. La Spiritualità parte da noi terapeuti, dalla nostra personale Spiritualità che ci costruiamo dentro, frutto di un nostro ricercarla e viverla continuativamente, fino a farne un nostro personale vissuto. Studiare la spiritualità è renderla “morta” come un oggetto di studio dell’archeologia, mentre “viverla” è renderla reale e vitale, tanto da generare terapia. La Spiritualità personale è la fonte di energia, di motivazione, di comprensione dell’altro, non solo a fine vita, ma per vivere pienamente il nostro tempo secondo la nostra weltanschauung, che abbiamo coscientemente costruito negli anni, dentro e fuori di noi con le nostre esperienze, riflessioni e susseguenti scelte. La Spiritualità è stare insieme, avere e vivere un senso di appartenenza e di relazione reciproca con qualcuno/qualcosa, scelto e percepito da noi e non imposto. Questo senso di appartenenza reciproca è alla base della nostra esistenza come genere umano appartenente al regno animale.
La Spiritualità non solo è utile, è indispensabile per la piena realizzazione delle cure palliative, noi palliativisti siamo arrivati alla Spiritualità, come le cure palliative nascono dalla Spiritualità. Le cure palliative, come una qualsiasi medicina, curano la persona che soggettivamente soffre, quindi non sono diverse da altre “branche” della Medicina, tutte hanno lo stesso obiettivo: il maggior benessere possibile “hic et nunc” per il sofferente. La Cura è uno scambio reciproco, non un’azione medica di una persona più esperta di te della tua sofferenza. È un’interazione reciproca, è uno stare insieme, senza dover “fare”, condividendo il tempo ultimo insieme, riuscendo così a trasformare il Tempo da Kronos a Kairos. L’incontro fra due persone è dinamico, cangiante, aperto, definibile solo con molte e diverse parole… e la migliore è stare in Silenzio insieme. Mentre la terapia è statica rigida, alfanumerica, ben definibile con numeri, la sofferenza è sempre soggettiva e il sofferente la conosce meglio del terapeuta. Solo il sofferente può decidere le priorità; al terapeuta resta decidere il “come” cercare di ottenere i risultati priorizzati da chi soffre.
Aldiquà o Aldilà? Termine o Transito? Il tempo ultimo è veloce, ma allo stesso tempo può diventare lento, senza fretta… lento stare in silenzio, lento toccarsi, è condividere il tempo del non-fare, ma dello stare insieme. È un tempo di condivisione potenzialmente molto importante e molto terapeutico. Questo tempo ultimo ti cambia. Il vivere una malattia “mortale” ti porta a percepire la tua finitudine e ti cambia. Sei diverso dopo; credo che indirettamente abbiamo esperito il cambio di “carattere” e di scelte di persone conosciute prima di una malattia potenzialmente mortale, che iniziano a vivere in maniera opposta rispetto a come aveva vissuto finora. Nel tempo ultimo, così percepito e vissuto, il sofferente diviene molto più sensibile rispetto alla sua vita anteriore, questo palesa una sofferenza esistenziale in aumento. “Quale differenza fra aspettare e vivere? Cosa è vivere se non stare/sentirsi insieme a qualcuno o qualcosa, che a noi piace e deciso da noi… e insieme fare ricordi…”.
Nel Tempo Ultimo osserviamo nell’essere umano un isolamento progressivo, un disinteressamento graduale del presente e del quotidiano, un essere persona più selettiva rispetto agli stimoli esterni, per aprirsi maggiormente ai vissuti interiori. Il sofferente a fine vita non vuole stare solo, ma si relazione per breve tempo e non ha voglia di rispondere alle “domande di rito”, sia dei terapeuti come dei familiari, passa la maggior parte del tempo “fra sé e sé” spesso a occhi chiusi. A fine vita siamo più sensibili di sempre, la percezione sensoriale e spirituale è finissima, forse come la brezza sottile di Elia. L’aumento progressivo di sensibilità interiore, come esteriore, ci trasforma in persone ipersensibili che riescono a comprendere una persona da uno sguardo o da un tocco di una mano. E’ per questo che a letto di un morente non si può ingannare nessuno e i nostri stati d’animo sono chiarissimi al sofferente, il quale li corrisponde e se percepisce ansia, paura, pietismo si chiude in sé stesso. Anche verso i familiari vi è una riduzione progressiva di interesse: prima i più piccolini, i nipotini … i figli …e poi come ultima il/la consorte. Percepiamo un cambio nelle priorità e quindi nei bisogni.
Cosa mi hanno insegnato le persone sofferenti a fine vita che ho incontrato? Mi hanno cambiato prima di tutto. Hanno rafforzato la mia Spiritualità interiore/intima. Mi hanno fatto scoprire la “animalità” che è in me, in un modo mai percepito prima. Mi hanno insegnato, educato, accolto condividendo le loro scoperte con me, “onorandomi” della loro fiducia … con brevi parole antiche.
Il Tempo ultimo è un tempo di scoperte interiori, di accettazione e molto di più, che nessuno di noi che vivremo potrà mai conoscere. Il sentirsi insieme: “tutti insieme” è terapia pura: non vado più da solo per la “selva oscura”, ma vado insieme accompagnato anche se da sconosciuti. Comprendere che quando il sofferente si chiude al Presente, forse è perché si apre al Futuro. “Quale futuro mi aspetta?” Poche parole e molto silenzioso contatto: toccarsi… ascoltare… stringere le mani insieme … sospensione del giudizio, sempre facendosi guidare dal sofferente. Meglio comunicare per immagini, o meglio ancora per sentimenti descritti con brevi parole, meglio suggerire e aspettare l’assenso del Sofferente e se non appare significa un “no”. Poche parole e molto più contatto, comunicare fra persone ascoltando, anche in silenzio le immagini evocate o solo percepite. Dare tempo al sofferente per esprimere i propri bisogni. Trasmettere la disponibilità di condividere il brutto del dolore come il bello delle scoperte e “come un’amante comprendere i bisogni prima che vengano formulati”. Quando vi è l’energia per l’ultimo saluto a noi terapeuti, questo è deferente ringraziamento. Il sofferente fa qualcosa che da giorni non faceva più: muove, solleva la mano per stringere quella del dottore, oppure riapre gli occhi, sorride o modula suoni, dopo giorni di costante silenzio e immobilità. L’esperienza diretta mi ha insegnato il frequente ostacolo, nel tempo ultimo, della differenziazione dei bisogni fra il morituro e i suoi familiari che sopravvivranno, dovendo gestire il futuro che resterà e allo stesso tempo il passato che scompare.
Un breve accenno alla necessità, ormai recepita dal mondo delle cure palliative, che non è più proponibile la esclusiva delega della Assistenza Spirituale a un solo e specifico Assistente Spirituale nel team curante. Tutta l’equipe deve includere la capacità di gestire questa dimensione con i sofferenti nel tempo ultimo, riconosciuta come terapeutica dall’assistito come dal team di cure palliative. Ricordiamoci le parole di Cicely Saunders fondatrice del movimento delle cure palliative: “Tailored Therapy! Unique of Patient! Keep Details!”. Guidelines e protocolli terapeutici devono sempre essere personalizzati e la vera sfida è accettare l’incomprensibile, l’incontrollabile, affidarsi al non-esperito, esterno a noi. Questo richiede un cammino di esperienze interiori, come di esperire la propria unicità per poter a fine vita de-centrarsi e quindi affidarsi. Accettare che “non torna mai tutto”, che c’è un inspiegabile che rimarrà sempre non spiegabile, accettare il mistero che scopriamo dentro e non fuori di noi: questa è la chiave di volta per vivere al meglio nel fine vita. Riconoscere e accettare che il “locus of control” non lo abbiamo mai interamente avuto in mano nostra, ma solo ricercato negli eventi della nostra vita. Solo un intimo cammino spirituale permette a pochi di raggiungere quella consapevole accettazione, opposta all’agitazione, dei molti che necessitano della sedazione palliativa. La Spiritualità è fondante per l’essere e l’agire come terapeuta, è personale e non dipende dal credere in qualcuno o qualcosa. A fine vita è funzionale per sostenere la qualità di vita del sofferente perché viva meglio e al meglio, fino alla fine finché si è vivi. Il terapeuta per comunicare deve essere preparato ad accettare il non-comprensibile, l’illogico del sofferente a fine vita. Sottolineare la originalità del Singolo e rilevarlo ed esaltarlo è pura Terapia per il Sofferente, come pure per il terapeuta: privilegiare lo Stare rispetto al Fare, il Percepire in silenzio rispetto al Ragionare. Come si personalizzano le terapie, così il medico deve adeguarsi alla Spiritualità del sofferente, valorizzando su tutti gli argomenti la “Relazione”.
Quale esperienza della morte è possibile a noi viventi? Paul Ludwing Landsberg, filosofo e credente, propone come unica risposta possibile quella interpersonale: “Noi viventi incontriamo la morte soprattutto quando questa strappa alla nostra comunione e comunicazione una persona che amiamo. Solo tramite il consimile o prossimo facciamo esperienza della morte, non come esperienza di un fatto che avviene fuori di noi, ma come esperienza interiore a noi stessi.”
Per concludere condivido con voi l’insegnamento di Giulio per me. Lo incontro, di nuovo, a casa sua, peggiorato, allettato, silenzioso da ore, mani intrecciate sul petto, occhi chiusi ma vigile, con un volto disteso. Sembra più interessato al suo dentro che al suo fuori.
Maurizio: “Sembri più interessato al tuo dentro che al fuori, anche se solo non vuoi restare. Sembri pronto a relazionarti come a chiuderti. Forse i ricordi e magari qualche rimpianto, catturano più il tuo interesse, del presente?
Giulio: “… No …altro..”
Maurizio: “Magari speranze? …”
Giulio: “Si! Con presenze che mi si presentano… più da sconosciuti … ma che mi tranquillizzano” Maurizio: “Forse non sono sconosciuti, ma tuoi antenati?
Giulio:”Sì forse… il tempo Dopo è più importante …del presente…“
Maurizio: “Non mi dimenticherò mai di lei, mi è stato Maestro.”
Apre gli occhi e lentamente volge lo sguardo verso di me, mi prende la mano dicendo:
“Neppure io di Lei, dottore”.