Alessandro Bichi e Marianna Argenzio, Psicologi UOC Fisiopatologia della Riproduzione Umana, AUSL Toscana Sud Est
La European Society for Human Reproduction and Embryology descrive l’infertilità come “una malattia del sistema riproduttivo definita dal mancato concepimento di un figlio a seguito di un periodo di 12 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’infertilità una patologia e stabilisce che chi è affetto da questa condizione ha il diritto a conseguire una terapia appropriata; si stima che riguardi circa il 3% della popolazione. Nei paesi sviluppati, una diagnosi di infertilità viene effettuata in oltre il 15% delle coppie in età riproduttiva. Con il termine sterilità ci si riferisce invece ad una coppia in cui uno o entrambi i membri della stessa sono affetti da una condizione fisica permanente, che non rende possibile il concepimento.
L’infertilità può derivare sia da fattori organici femminili (alterazioni ormonali,alterazioni tubariche; patologie uterine; età della paziente; malattie sistemiche o genetiche) o maschili (insufficiente produzione di spermatozoi o anomalie nella qualità degli spermatozoi prodotti) sia da fattori psicologici, sociali o idiopatici, laddove vi è assenza di un quadro eziopatogenetico chiaro che possa spiegare la stessa condizione d’infertilità.
L’infertilità è in continuo aumento: il tasso di fertilità totale, ossia il numero di bambini nati dalla stessa donna nell’arco della sua vita, sta diminuendo mettendo a serio rischio il tasso di sostituzione della popolazione. Tale fenomeno ha un’origine multifattoriale: da una parte le trasformazioni dei bisogni sociali e culturali hanno posticipato la nascita del primo figlio, dall’altra l’aumento delle malattie a trasmissione sessuale e/o fattori ambientali, come l’inquinamento, le sostanze tossiche, le cattive abitudini di vita, hanno ridotto drasticamente la quantità e la qualità degli spermatozoi. Oltre a questi fattori, non possiamo non considerare l’incidenza che possono avere sulla fertilità di coppia la profonda instabilità lavorativa, economica e familiare, che appartiene al tempo in cui viviamo, tanto che l’aumento di sterilità può essere rappresentato come un sintomo della nostra epoca. Tutto ciò ha contribuito al crescere della discrepanza tra il tempo del corpo biologico e la scelta del “momento giusto” e a far diventare la transizione alla genitorialità un evento sempre più programmato dalla coppia. Di conseguenza, la difficoltà di concepire un figlio rappresenta una sfida per il benessere psicofisico della donna, dell’uomo e della coppia come unità, riconosciuta a livello mondiale e cross-culturale.
La procreazione medicalmente assistita (di seguito PMA) è da considerarsi il processo mediante il quale si cerca di realizzare il desiderio di concepire un figlio attraverso il sostegno e l’intervento di specialisti del campo medico e riguarda quindi tutti quei procedimenti che comportano il trattamento di ovociti, di spermatozoi e/o di embrioni nell’ambito di un progetto finalizzato a determinare il processo riproduttivo. Le tecniche di PMA si suddividono in base alla loro complessità, al grado di invasività e al concepimento dentro o fuori dal corpo femminile e sono: tecniche di I livello (monitoraggio ecografico dell’ovulazione con rapporti mirati; inseminazione intrauterina; crioconservazione dei gameti maschili); tecniche di II e III livello (fecondazione in vitro; prelievo dei gameti maschili mediante tecniche di Estrazione di Spermatozoi per via Testicolare; crioconservazione di gameti maschili e femminili e di embrioni; tecnica di PMA di tipo eterologo con donazione di gameti maschili, femminili o entrambi; Diagnosi Genetica Preimpianto; preservazione dei gameti per motivi medici e sociali).
La giovane età della partner femminile rimane in ogni caso uno dei fattori determinanti per l’esito positivo di un ciclo di PMA. In Italia nel 2020 l’età media delle donne che hanno effettuato cicli di PMA è stata di 37 anni, dato in crescita da molti anni ed il più elevato rispetto a quanto si osserva nel resto d’Europa. Nel caso in cui si inizi il trattamento, la percentuale di gravidanza che si otterrà varierà dal 18,1% (cicli a fresco) al 44,5% (percentuale cumulativa con cicli a fresco e da crioconservazione di embrioni) nelle donne fino a 34 anni per poi abbassarsi al 4,5%-8,1% in quelle con un’età pari o superiore ai 43 anni. Tali percentuali variano in modo significativo anche in funzione della tecnica utilizzata, vale dire se omologa e/o eterologa: se prendiamo la tecnica eterologa a cui si fa maggiormente ricorso, vale a dire la donazione di ovociti, le percentuali di gravidanza aumentano significativamente rispetto all’età biologica della donna che si sottopone al trattamento (36,4% in donne con età pari o superiore a 43 anni).
In base alla normativa di riferimento nazionale (Legge 40 del 2004) possono accedere alle tecniche suddette tutte le coppie maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile e con i partner entrambi viventi. L’accesso alla PMA è possibile quando sia stata accertata l’impossibilità di rimuovere – in altro modo – le cause che impediscono la procreazione; nei casi di infertilità o sterilità derivanti da causa accertata e certificata da atto medico; nei casi in cui la coppia, pur essendo fertile, è portatrice di malattie genetiche trasmissibili per cui è necessario eseguire una diagnosi genetica sull’embrione (vedi sentenza della Corte Costituzionale 96/2015) e nei casi in cui nella coppia fertile uno dei due partner è portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, per evitarne la trasmissione al/alla partner. Inoltre dal 2014 la sentenza n. 162 della Corte Costituzionale ha eliminato il divieto all’applicazione delle tecniche con donazione di gameti imposto dalla Legge 40/2004, ed è stata reintrodotta la possibilità di fare ricorso a procedure di PMA con donazione di ovociti, di seme e con doppia donazione.
La complessità del tema investe inoltre aspetti etici e giuridici: la libertà di ricorrere alle tecnologie riproduttive si bilancia con altri diritti costituzionalmente protetti, quali, oltre al sentimento della dignità umana, il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto dei nascituri a crescere in modo sano, equilibrato ed in armonia con la propria famiglia, senza con ciò rinunciare alla qualificazione delle tecniche stesse come oggetto di un fondamentale diritto dell’uomo in quanto la finalità delle tecnologie procreative dipende dall’accertata sussistenza di una sterilità della coppia che ne faccia richiesta.
Vista la complessità della materia e la necessità di risposte tempestive, la Regione Toscana ha costituito la Rete Regionale per la Prevenzione e Cura dell’Infertilità (Delibera n° 777 del 17.07.2017) prendendo a modello l’organizzazione della RETE PMA dell’AUSL Toscana Sud Est, la quale si basa su un’organizzazione di efficacia, efficienza ed appropriatezza dei servizi attraverso strutture operanti sul territorio e tra loro interconnesse mediante il concetto di HUB (Centro di Medicina della Riproduzione e Chirurgia dell’infertilità, incluso il Centro di PMA di I, II e III livello) e SPOKE (ambulatorio/ambulatori di prossimità, vale a dire struttura ambulatoriale con competenze multidisciplinari in grado di fornire un inquadramento alla coppia o all’individuo con problemi riproduttivi e collegato all’HUB).
Una coppia che inizia un percorso di PMA entra quindi, prima che in uno spazio tecnico-medico, in uno spazio emotivo in cui si sente fragile e mancante: l’equipe multidisciplinare, alla quale i partner si sono affidati, può quindi rappresentare l’oggetto a cui delegare, con forte investimento, la speranza della soluzione del proprio problema. L’infertilità e la sterilità, essendo condizioni potenzialmente in grado di compromettere gravemente la qualità di vita delle coppie che non riescono a realizzare il proprio desiderio di genitorialità, impongono un utilizzo strategico della figura dello psicologo, il cui intervento all’interno dell’equipe multidisciplinare si può declinare in termini di supporto e sostegno prima, durante e dopo il trattamento tecnico. Gli individui che sperimentano questa condizione si trovano, infatti, a dover affrontare il dolore scaturito sia dalla mancata capacità generativa sia dal confronto con le aspettative della rete sociale di appartenenza, nonché della società in senso più allargato, che induce una pressione molto alta nelle persone con problemi di fertilità. L’infertilità è un’esperienza particolarmente stressante, poiché mina profondamente l’identità maschile e femminile, mettendo in discussione il tema della virilità e negando il complesso percorso della gravidanza, del parto e dell’allattamento, esperienze percepite come sinonimo di maternità. Il valore della fertilità e del ruolo della genitorialità è così radicato, anche nelle società moderne, che non è sorprendente che gli individui infertili possano sentirsi fortemente soli nella loro esperienza e nel loro profondo dolore. Lo psicologo, in stretta e continua collaborazione con l’equipe formata da ginecologi, genetisti, andrologi, biologi, infermieri, ostetrici, etc.. attua interventi preventivi e di sostegno emotivo alle coppie candidate ad un ciclo di trattamento. In questa ottica, la presenza di uno psicologo che possa seguire il percorso delle coppie costituisce un’opportunità tale da definire il servizio di psicologia come parte integrante delle attività della medicina della riproduzione e non più come semplice rapporto di consulenza al momento.
Il supporto psicologico riguarda tutti gli aspetti connessi ai trattamenti di PMA ed è riconosciuto di grande beneficio, migliorando la compliance al trattamento stesso. Uno degli scopi fondamentali del supporto psicologico è quello di aiutare le persone a dare un senso a tutte le informazioni che hanno raccolto, in modo da consentire loro di decidere il più serenamente possibile riguardo al trattamento o alle altre soluzioni disponibili. Disorientamento, difficoltà ad accettare la situazione, timori per le terapie e le procedure mediche, ansia e depressione, gestione delle aspettative di genitorialità e paura del fallimento sono solo alcuni dei temi più comuni che vengono affrontati nei colloqui clinici.
Dopo anni di infertilità la transizione alla genitorialità può essere difficile e stressante, risentendo di tutti gli anni passati immersi nell’esperienza d’infertilità, degli stress psicofisici legati agli accertamenti medici e agli eventuali insuccessi dei cicli precedenti. L’improvvisa e brusca transizione alla genitorialità è un passaggio psicologico che, richiedendo un veloce riesame della propria identità e della propria configurazione psichica, può necessitare di un supporto specifico.
L’interruzione e/o l’abbandono del trattamento dell’infertilità, definibile come drop-out, si riferisce invece a quei pazienti che, a seguito del fallimento di un ciclo, scelgono di non procedere con ulteriori trattamenti nonostante vi siano le indicazioni mediche per continuare e le risorse per farlo, nonché a quei pazienti che decidono di non procedere nonostante l’elezione al trattamento (24-30% dei pazienti). La letteratura sul drop-out chiarisce che il paziente (individuo e coppia), la clinica (equipe e contesto) ed il trattamento (tipologia ed effetto) hanno influenze reciproche nel determinare la motivazione dei pazienti di continuare o meno con il trattamento. Questo suggerisce che per affrontare al meglio il fenomeno del drop-out ed ulteriori dimensioni relative alla qualità dei percorsi erogati, è necessario un approccio integrato che tenga conto di queste reciproche influenze e veda nel ruolo dello psicologo un fattore chiave per costruire risposte e servizi centrati sul paziente.
In conclusione la complessità della condizione d’infertilità e delle tecniche di PMA impone un’organizzazione ed erogazione dei servizi di presa in carico e cura che utilizzino le competenze psicologiche come fattore di comprensione e gestione di tale complessità al fine di evitare il rischio di scivolare in facili ma pericolosi riduzionismi o al contrario abdicare all’effetto dell’incertezza degli esiti.