Pino Pini, Psichiatra NHS North London Mental Health Trust già psichiatra ASL di Firenze e Prato
L’articolo “Responding to the crisis of care“ di Iona Heath e Victor Montori, pubblicato di sul British Medical Journal, affronta il tema del rapporto fra una salute iper-tecnologizzata, rivolta soprattutto alla malattia, e una salute che invece valorizza le relazioni umane che di per sé contribuiscono molto alla salute stessa. Per relazioni umane non si intende solo il rapporto diadico medico paziente ma anche un insieme di relazioni collettive di scambio di esperienze fra persone che affrontano in maniera positiva il tema della sofferenza, della malattia e della morte come parti integranti della vita. Interessante il riferimento allo slogan “Pane e rose“ adottato dal movimento delle Suffragette che più di un secolo fa reclamava il diritto di voto per le donne. Ho trovato particolarmente importante la prima parte dell’articolo per la ricchezza di spunti di riflessione. Nella seconda parte ci sono dei passaggi che non mi sento di condividere appieno e forse mi sarei aspettato delle conclusioni diverse e specialmente di tipo politico culturale. Ho deciso comunque di proporre l’articolo nella sua versione integrale perché il messaggio generale è molto chiaro: occorre dare valore al potenziale delle relazioni interpersonali che sono una parte indispensabile della cura evitando di affidarsi ciecamente a sistemi anonimi guidati da algoritmi tecnocratici. La traduzione non è stata facile soprattutto per le metafore inusuali adottate e la conseguente trasposizione di concetti e significati in settori fra loro distanti. Ho cercato di mantenermi il più possibile fedele al testo e comunque rimando al link del testo originale inglese dove è possibile reperire anche la bibliografia.
Iona Heath, London UK
Victor M Montori, Mayo Clinic, Rochester, Minnesota, USA
the bmj | BMJ 2023;380:p464 | doi: 10.1136/bmj.p464 https://www.bmj.com/content/380/bmj.p464
Il sistema della cura è in crisi in gran parte del globo e forse in modo particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito, paesi che sembrano più disuniti di sempre per l’alto grado di incuria prodotto dalla attuale polarizzazione socioeconomica e politica e dal sistematico degrado del nostro pianeta.
Ci sono due possibili risposte a questa crisi. La prima rimanda semplicemente a una crisi di organizzazione, di efficienza, di informazione, di tecnologie e di misurazioni. Le persone sono viste come macchine biologiche non ancora sufficientemente studiate, come nuvole sparse di dati scarsamente dettagliati, come sistemi fisiologici inadeguatamente monitorati e regolati. Si tratta del crescente, irriducibile e folle sogno secondo cui, se soltanto l’industria della salute potesse conoscere e usare i dati biomedici e socioeconomici di ciascuno, allora i bisogni delle persone potrebbero essere predetti e un futuro di benessere per tutti sarebbe assicurato. L’industria sta già vendendo strumenti tecnologici da polso e da tasca, per la casa e per il lavoro, incoraggiando i consumatori ad agire, blandire o forzare altri a prevenire la malattia e la sofferenza; tutto questo mentre si dimentica che alla fine tutti dobbiamo morire.
La scienza biomedica e i motori di ricerca tecnologici producono test e forniscono risposte mediante simulatori di conversazione (chatbots) rivolgendosi al singolo consumatore. Si evitano così le frizioni e i costi che dovrebbero essere sostenuti se si avesse a che fare con più persone. Tale assetto è costruito per operare in sistemi sanitari con livelli di rapidità e di capacità di impatto che sono possibili soltanto quando abbandoniamo l’idea che la cura sia possibile agendo unicamente con le persone in modo collettivo. Tutto ciò alimenta ancor più il coinvolgimento dei grandi distributori al dettaglio e dei produttori di dati nel settore della salute; si incentiva il crescente consumo di tecnologia farmaceutica e medica ignorando dolosamente le conseguenze per il pianeta. La seconda risposta presuppone che si tratti di una crisi di cura in sé e per sé. La cura avviene nello spazio interattivo fra persone attraverso incontri senza fretta. Solo l’interazione fra persone produce cura: uno nota un problema nell’altro e cerca di identificarsi nella sua situazione per migliorare la propria. Nel settore sanitario, questa osservazione va oltre il biologico e dà valore invece al biografico. Si è pienamente consapevoli che i corpi non sono macchine e che le emozioni, sia positive che negative, esercitano una potente influenza su ogni aspetto della salute.
Si considera non tanto ciò che rende la vita possibile, quanto ciò che la rende significativa. La cura non è solo aderenza alle linee guida basate sull’evidenza per migliorare i dati numerici della popolazione. Il lavoro di cura scopre o inventa vie da seguire. Lo sforzo della cura nutre speranze che la situazione possa migliorare in futuro. Ne risulta un percorso di sviluppo co-creato dove il conforto è sempre presente, pur spaziando dalla chirurgia complessa allo stare in compagnia dei moribondi, dal riparare all’alleviare.
Questa risposta è umana, quindi è irta di attriti, immersa nella più radicale incertezza, ma resiliente rispetto alla ricorrenti immancabili frustrazioni; ciò grazie alle strette relazioni personali all’interno della quale la cura si sviluppa.
Durante quest’estate abbiamo letto entrambi l’ultimo libro di Rebecca Solnit, “Le Rose di Orwell”, la cui ispirazione è legata al momento in cui l’autrice ha scoperto che George Orwell aveva non solo scritto la più cupa e potente rappresentazione dei regimi totalitari del ventesimo secolo, ma aveva anche piantato cespugli di rose acquistate a prezzo irrisorio
Questa apparente contraddizione tra la cupa visione del mondo e quella positiva legata al giardinaggio, ha ricordato a Solnit lo slogan politico “Pane e Rose” emerso negli Stati Uniti intorno al 1910 e utilizzato da donne impegnate nella lotta per il voto femminile e per i diritti dei lavoratori. Descrivendo la potenza dello slogan, Solnit ha scritto: “Il pane nutriva il corpo, le rose nutrivano qualcosa di più sottile: non solo il cuore, ma l’immaginazione, la psiche, i sensi e l’identità. Si trattava di uno slogan grazioso ma nello stesso tempo di uno strenuo dibattito per ottenere il diritto ad avere qualcosa di più della mera sopravvivenza e del benessere fisico.
Si trattava di un’opposizione contro l’idea secondo la quale tutto di cui gli esseri umani hanno bisogno può essere ridotto a beni e condizioni quantificabili e tangibili. In queste dichiarazioni le rose rappresentavano il modo in cui gli esseri umani sono complessi, i desideri irriducibili e quello che ci sostiene è spesso sottile e sfuggente”. Pane e rose è ciò che le persone coinvolte nella cura (operatori e pazienti) vogliono dall’assistenza sanitaria. Il pane è nutrimento e vita, mentre le rose sono coraggio e speranza, curiosità e gioia, e tutto ciò che rende una vita degna di essere vissuta. Il pane è biologia, le rose sono biografia. Il pane è transazionale e tecnocratico, le rose sono le relazioni. Il pane è scienza, le rose sono cura, gentilezza e amore. Pane e rose può anche aiutare l’assistenza sanitaria a sviluppare una cura più appropriata. Fatti salvi coloro che fanno il pane per proprio conto, il parallelo qui è con la produzione industriale del pane, quando il pane rappresenta i processi burocratici che producono un’assistenza sanitaria efficiente e sicura, evitando sprechi e errori attraverso la standardizzazione, la regolamentazione e la formazione.
Fare il pane rimanda a tecnologie e innovazioni che rendono le conversazioni pacate e la continuità assistenziale possibili e realizzabili; il fine è ridurre gli errori diagnostici e individuare e correggere tempestivamente e in modo affidabile i danni. In questo senso il pane assicura che l’assistenza sanitaria conservi la capacità di occuparsi sia dell’oggetto di cura (corpo, mente, paure e sentimenti dei singoli pazienti), sia per creare le condizioni per l’erogazione di cure attente e gentili. Le rose rappresentano ciò che rende la vita degna di essere vissuta, le cose buone nei rapporti umani e le storie che usiamo per dare un senso alle nostre situazioni più disperate e a ciò che è possibile ottenere con le terapie.
Le rose sono ciò che ci dà conforto di fronte al fallimento, al dolore, al decadimento e alla morte, ma in una prospettiva globale di vita. Prendersi cura delle rose mette in netto rilievo il tema della cura in modo che le cicatrici dell’ingiustizia, del razzismo, dell’iniquità e della violenza possano essere rese visibili accanto alle cicatrici della malattia. Le rose, come attente cure gentili, parlano di speranza: il nostro lavoro di piantare e creare adeguate condizioni di luce, suolo e acqua rende possibile che un fiore potrà apparire in futuro.
Proprio come per le rose, la cura non può essere soggetta a ordini o blandizie, ma deve emergere dalle giuste condizioni. L’assistenza sanitaria industrializzata post-pandemia è principalmente guidata da un duro lavoro legato a un’ossessione per i numeri imposta dall’esterno. Questo sta causando un danno morale diffuso costringendo i professionisti a dare la priorità sempre più a interventi che sanno essere futili e a bandire qualsiasi traccia di una rosa per i malati o per chi cerca di prendersene cura.
L’impalcatura morale dell’assistenza sanitaria industrializzata è sempre più in disaccordo con gli imperativi etici e morali del prendersi effettiva cura dei malati. Il risultato non può che essere dissonanza cognitiva, danno morale, delusione, rabbia, dissoluzione e abbandono. Come Rebecca Solnit afferma, l’etica della cura è diffamata in quanto, “… banale, irrilevante, indulgente, inutile, distratta o connotata da altri aggettivi peggiorativi con cui il quantificabile discredita il non quantificabile”. Abbiamo dimenticato i limiti dell’industria e della tecnologia. Abbiamo lasciato che alcune forme di progresso materiale e di crescita prevalessero sulla dignità, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla sostenibilità.
L’eccessiva attenzione al pane ci ha lasciato l’impressione che la cura sia una risorsa finita e che la sua scarsità richieda una somministrazione regolamentata e razionata. Stiamo vivendo una situazione come quella dei “paradisi lastricati” di Joni Mitchell. Osserviamo una condizione dell’assistenza sanitaria che ha finito le sue cure, quando gli operatori sanitari in burn out, cercano tuttavia di prendersi cura dei pazienti anche se essi stessi sono esauriti, quando i pazienti cercano cure, ma il business plan e l’algoritmo prescrivono crudele indifferenza.
Come rispondere a questa crisi della cura? Qui, lo stesso Orwell ci guida verso la risposta. La scoperta che Orwell piantò quelle rose ha portato Solnit a rivalutare il suo romanzo “1984”. Dentro tutto il grigiore, la crudeltà e l’oppressione, c’è questa grande verità: “Ciò che contava erano le relazioni individuali, anche un gesto molto semplice, un abbraccio, una lacrima, una parola detta a un moribondo, potrebbe avere valore in sé stesso”. La gioia e le rose della salute, anche in questi tempi terribili, esistono all’interno delle relazioni, tra pazienti e professionisti e tra gli stessi professionisti; e vi è la sicura consapevolezza che tutti questi gesti semplici hanno valore in sé.
Si scopre che la cosa sovversiva, quasi rivoluzionaria da fare all’interno della sanità contemporanea è quella di costruire, in silenzio e discretamente, queste relazioni cruciali. Ora lo sappiamo la continuità delle cure, all’interno della coppia medico-paziente, ritarda la malattia e prolunga la vita e quindi fornisce il pane, ma lo fa donandoci contemporaneamente le rose della gioia, della fiducia, della curiosità, della cura, della gentilezza e della solidarietà. Una vita degna di essere vissuta tende a durare più a lungo. Infatti la cura, come l’amore, è abbondante e autosufficiente ed è un potenziale di tutti. La cura è una particolare capacità umana che cresce con la soddisfazione di aver scelto di correre verso il dolore, che si riempie del sorriso e della gratitudine con cui valutiamo la nostra efficacia, che si rigenera quando la cura e l’amore ritornano a coloro che offrono cure anche quando, invariabilmente, devono diventare ricevitori di cure. La cura, come le rose, dà senso alla vita. Dobbiamo coltivare la cura. Combattendo per uscire da questa crisi sanitaria, lavorando per una cura attenta e gentile per tutti, dobbiamo seguire le suffragette e pretendere “pane e rose”.