Antonio Panti
Tutti discettano di intelligenza artificiale (I.A.) tra entusiasmo e preoccupazione, la seconda nettamente prevalente: che accadrà della medicina e della professione medica nell’era dell’I.A.?
A mio avviso l’errore sta nel chiamarla “Intelligenza”. L’intelligenza è qualcosa di assai più complesso di uno strumento meramente computazionale. L’intelligenza è un insieme di fattori, la coscienza, la consapevolezza, la fantasia e molti altri, compreso l’intreccio col proprio corpo.
Tuttavia l’I.A. in medicina, se da un lato apre a grandi speranze di progresso in tutti i campi della sanità, dall’altro come ogni innovazione provoca timore: l’I.A. integrerà o sostituirà l’opera del medico? Provocherà disoccupazione e perdita di ruolo o, come ogni creative disruption della tecnologia applicata al mercato, porterà a impensate e entusiasmanti novità?
L’I.A. faciliterà la produzione di nuovi farmaci, l’I.A. migliorerà i servizi diagnostici, l’I.A. renderà più leggibile l’enorme quantità di dati necessari alla sanità, l’I.A. offrirà diagnosi, prognosi e terapie, risponderà a mille difficoltà della medicina e aprirà a soluzioni oggi impensabili.
Tutti gli esperti concordano sulla necessità e urgenza di dare regole etiche e giuridiche all’uso di qualsivoglia strumento che utilizzi l’I.A e la FNOMCeO deve promulgare quanto prima norme deontologiche. Tuttavia il problema fondamentale non è tanto imparare a usare l’I.A. (già vi è un’abbondante offerta di corsi) quanto di trarne profitto professionale e non imbarazzo di fronte a un paziente che l’ha consultata e appare saperne più del medico.
Perché l’I.A. rappresenti un concreto vantaggio professionale occorre che il medico sappia porre alla macchina le domande giuste; l’I.A. è uno strumento di deep learning, che elabora ciò che ha acquisito per rispondere ai quesiti posti, e sono citati mille esempi di risposte errate perché fondate su bias nei dati immessi nella macchina e nell’elaborazione di questi.
Ma anche i pazienti porranno domande all’I.A. e assai spesso ne trarranno fake news, nel mondo della post verità. L‘impegno del medico sarà allora di convincere il paziente della non scientificità delle sue pseudo certezze e persuaderlo a aderire alla sua proposta di cura.
Nel primo caso il medico deve possedere una capacità logica che è parte della filosofia, nel secondo una competenza retorica, cioè essere persuasivo; in entrambi i casi occorre saper maneggiare la grammatica per rendere intellegibile il discorso.
Tutto ciò si inquadra nelle cosiddette Medical Humanities, comprende la Medicina Narrativa, ma va oltre. E’ paradossale come, di fronte alla più moderna delle tecnologie, l’I.A, torni a superficie la grande tradizione delle Università medioevali, la ripartizione dei saperi nel trivio e nel quadrivio.
La medicina stava nel quadrivio, cui si accedeva dopo aver concluso lo studio del trivio e cioè la grammatica, la retorica e la dialettica (in pratica la logica). Sarà bene spiegare ai giovani, convinti che la storia inizi con la loro generazione, che siamo nani sulle spalle di giganti e che il sapere medico è qualcosa di non contenibile nei limiti dell’I.A.
E’ opportuno includere nel curricolo formativo del medico lo studio delle arti liberali del trivio, la grammatica, la logica e la retorica, a dimostrazione che qualsiasi tecnica, la più sofisticata, non sostituisce l’intelligenza naturale del medico che deve acquisire gli strumenti per dominarla.