Patrizia Fistesmaire, Direttrice ff UOC Psicologia Continuità Ospedale Territorio della Azienda Usl Toscana nord-ovest e Responsabile UF Consultoriale Zona Piana di Lucca
Sabrina Danti, specialista ambulatoriale, UOC Psicologia Continuità Ospedale Territorio, Azienda Usl Toscana nordovest
Renato Galli, Vice Direttore Dipartimento Specialità Mediche, Direttore Area Patologie Cerebro Cardio Vascolari della Azienda Usl Toscana nord-ovest, Direttore UO Neurologia Valdera
Background sociodemografico
Lo scenario sociodemografico che si pone davanti ai nostri occhi, prevede nelle prossime due decadi un aumento della popolazione over 60 anni sia nei Paesi occidentali che nei Paesi del terzo mondo. Sebbene non sempre riconosciuto come tale, l’invecchiamento della popolazione è la storia di un grande successo dell’umanità, derivante dall’aumento dell’aspettativa di vita, sostenuto da un concomitante declino dei tassi di natalità nei Paesi più evoluti.
Lo scenario socio-demografico è reso ancor più complesso dai flussi migratori. Un importante rapporto redatto dall’ISTAT nel 2016 sul futuro demografico del nostro paese, stimava a 58,6 milioni la popolazione residente attesa per l’Italia nel 2045 mentre i dati provvisori ISTAT del 2023 indicano in 58,8 milioni la popolazione attualmente residente in Italia. Circa l’11% della popolazione italiana è costituita da migranti, ma la composizione è destinata a cambiare. Il saldo migratorio con l’estero è positivo, mediamente superiore alle 150 mila unità annue, ma rimane contraddistinto da forte incertezza a causa di repentini cambiamenti dovuti alla situazione economica e politica.
Un editoriale pubblicato nel 2020 dall’Istituto Superiore di Sanità, pone l’attenzione sulla transizione demografica in corso e sulle popolazioni migranti. I migranti over 60 anni stanno aumentando e sono sempre più esposti a rischi di malattie croniche e invalidanti, tra cui la demenza.
L’emergenza sanitaria delle Demenze
In tutto il mondo, la demenza colpisce 50 milioni di pazienti, il che la rende una delle principali cause di mortalità. Gli oneri finanziari associati sono notevoli. Nell’Europa meridionale, concentrandosi sulla malattia di Alzheimer, che comprende circa il 65% dei casi di demenza, il costo annuo stimato per paziente è 35.000 euro di cui circa il 75% dovuto all’assistenza informale. Oltre alle implicazioni economiche, il declino cognitivo associato alla demenza influisce profondamente sul benessere psicologico degli individui, delle famiglie e degli operatori sanitari. Le cause della malattia di Alzheimer rimangono ignote. Il suo sviluppo è associato a una moltitudine di fattori ambientali, clinici, comportamentali e genetici. L’invecchiamento è riconosciuto come il principale fattore di rischio e, tra gli individui di età ≥ 65 anni, uno su dieci è affetto da demenza, prevalenza che aumenta con l’avanzare dell’età. Le terapie modificanti il decorso della malattia sono ancora oggetto di studio. Attualmente, i trattamenti farmacologici sono soltanto sintomatici e hanno come target alcuni meccanismi biologici di base noti nella malattia. I trattamenti esistenti mostrano un’efficacia limitata nell’arrestare il progresso clinico dell’Alzheimer, nonostante mostrino un effetto neurobiologico statisticamente significativo. Ricordiamo inoltre che gli studi farmacologici sono stati condotti esclusivamente su gruppi di pazienti caucasici; è necessario includere etnie diverse affinché un farmaco sia efficace in un pool di pazienti più ampio una volta approvato.
Demenza e migranti : la valutazione neuropsicologica e le sue criticità
Storicamente in Italia la provenienza del flusso migratorio era limitata a pochi Paesi e culture, avendo principalmente provenienza dalla Romania, dall’Albania e dal Marocco. Ad oggi invece possiamo considerare il fenomeno dell’immigrazione sempre più plurietnico e multiculturale e questo complica ulteriormente alcuni aspetti di detezione clinica della sindromi dementigene.
La parte diagnostica delle malattia neurodegenerative è particolarmente complessa e prevede una collaborazione multiprofessionale. In fase diagnostica è riconosciuta la necessità di una valutazione neuropsicologica, condotta da uno psicologo esperto sul tema demenza. Dalla pratica clinica sappiamo che in moltissimi casi la visita neuropsicologica è esame chiave nella detezione dei quadri prodromici o nella diagnosi differenziale.
Sul tema migranti, la difficoltà di effettuare una qualunque visita va ben al di là della barriera linguistica che rappresenta il principale ostacolo nel condurre la visita. A differenza dell’esame medico obiettivo e della semeiotica neurologica, che possono almeno in parte essere eloquenti a prescindere dalle istruzioni fornite al paziente, la semeiotica e la diagnosi neuropsicologica non possono prescindere da ciò almeno nell’ambito complesso delle demenze. Con l’aiuto di un mediatore culturale è possibile superare la barriera linguistica. Ma non è l’unico problema da arginare. I test utilizzati sono infatti costruiti sulla cultura della popolazione di riferimento e standardizzati sulla stessa. La popolazione migrante mette in luce una criticità di un aspetto cardine nella costruzione del test, ovvero il rapporto fra validità di costrutto e validità culturale di un test. La validità di costrutto è il grado con cui un individuo possiede un tratto ipotetico che si presume si rifletta nella performance del test: la validità culturale è il grado in cui i risultati evinti dal test possono essere generalizzati a gruppi/contesti culturali distinti. Ad oggi è in corso un acceso dibattito su questo tema, ma in attesa di indicazioni e soluzioni anche statisticamente eleganti, allo psicologo spetta il difficile compito di stimare a braccio se il “carico culturale” di un test sia di alto o basso impatto e ipotizzare se sia possibile ottenere dei punteggi validi.
Pensiamo alla differenza del sistema di letto-scrittura delle popolazioni caucasiche versus quelle asiatiche, il cui apprendimento plasma fin dalla prima infanzia l’acquisizione relativa al linguaggio, la percezione visiva e le abilità visive relative dei simboli e il sistema logico-concettuale sottostante. Ad esempio, nella lingua cinese un dato ideogramma significa generalmente “contenitore” e saranno fattori contestuali che faranno comprendere se si tratta di un secchio, di un bicchiere o di un paniere; nelle lingue caucasiche invece non sussiste questa incertezza nel rapporto fra simbolo e significato. La valutazione del linguaggio risulta fortemente influenzata da questo aspetto culturale e secondariamente la valutazione della memoria risulta influenzata dall’utilizzo di stimoli linguistici, visivi e spaziali, in un circolo quasi senza fine. Non a caso, nell’ambito della valutazione neuropsicologica del linguaggio nel settore clinico delle cerebrolesioni acquisite, si è tentato un approccio risolutivo creando molteplici versioni equivalenti della medesima batteria, come nel caso del “Bilingual Aphasia Screening test”.
L’altro problema che si pone sui test, nella valutazione delle popolazioni migranti riguarda la standardizzazione. Si pensi al caso di un test di screening molto famoso, tradotto e diffuso in tutto il mondo, il Montreal Cognitive Assessment test il cui punteggio va da 0 a 30, ove 30 indica la massima performance e il cui cut off dirimente fra normalità e patologia sulla popolazione di riferimento (canadese) è 26 punti corretti. Circa 10 anni fa un gruppo di ricercatori italiani ha ricalcolato le norme sulla popolazione italiana e ha trovato un cut off discriminante molto diverso, ovvero 17 punti corretti. Da questa e da altre evidenze, si è sviluppato un filone di ricerca che concorda nel fabbisogno di stratificare per razza/etnia il campione al fine di avere cut off sensibili e specifici.
Ricordiamo anche la difficoltà di valutazione del comportamento nell’ambito demenze che da sempre resta relegata all’osservazione clinica e alla raccolta anamnestica. E’ nota da tempo la diversa presentazione clinica dei disturbi neuropsichiatrici nei diversi quadri dementigeni a secondo delle diverse culture. A tal fine è utile ricordare che è stata recentemente riconosciuta l’importanza della Etnopsicologia nell’ambito demenze che postula la necessità di approcci culturalmente sensibili nella valutazione neuropsicologica di questi pazienti. Saper riconoscere i sintomi comportamentali in qualunque paziente, anche nei migranti per poi trattarli adeguatamente è una necessità: espongono i pazienti e i cittadini tutti a rischi e pericoli elevatissimi. Per comprendere maggiormente la diversa presentazione clinica dei disturbi neuropsichiatrici nei diversi quadri dementigeni e nelle diverse culture, e riuscire a quantificare globalmente l’entità del problema, è nato nel 2016 il progetto Immidem, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità.
La nuova sfida socio-sanitaria
La prevenzione, è forse la più grande battaglia da affrontare sul fronte demenze, sia da un punto di vista socio-sanitario ma anche da un punto di vista politico e culturale. Riguardo l’epidemiologia della demenza, non possiamo più ragionare soltanto in termini di ineluttabilità, relegandola soltanto ad un fenomeno incontrastabile che aumenta con l’età.
La letteratura scientifica indica che possiamo arrivare a prevenire una percentuale considerevole, addirittura fino al 40% dei casi di demenza, investendo nell’abbattimento precoce di fattori noti di rischio, secondo un recente report edito sulla prestigiosa rivista Lancet. La somma del peso relativo di tutti i fattori spiega il 40% di cui sopra e la sola scolarizzazione, applicata precocemente, ha un peso del 7%. Investire nella scolarizzazione, soprattutto nelle fasce migranti, può ridurre considerevolmente i casi di demenza. L’Italia purtroppo si trova sotto la media europea nei tassi di partecipazione al sistema scolastico.
Similmente, l’Istituto Superiore di Sanità tramite alcuni sistemi di sorveglianza dedicati all’analisi e raccolta di informazioni su diverse fasce di età ha calcolato a livello teorico l’impatto cumulativo dell’azzeramento di 7 fattori di rischio nello sviluppo di demenze in tutte le regioni italiane: bassa scolarità, ipertensione, diabete, deficit uditivi, fumo, obesità, depressione, inattività fisica. I risultati indicano una percentuale assolutamente in linea con quanto rilevato dall’articolo sopracitato di Lancet. In particolare questi fattori di rischio sono stati scelti perché modificabili, per sollecitare una possibile e reale azione da parte delle politiche socio-sanitarie.
Sul tema demenze, non solo sul tema demenze e migranti, è necessaria un’azione sinergica e sistemica condivisa fra tutti gli attori, sia in tema di prevenzione che di contrasto.