Intervista ad Andrea Vannucci, docente di Programmazione, Organizzazione e Gestione delle aziende sanitarie Dism dell’Università di Siena
Case e ospedali di comunità: a che punto siamo in Toscana?
La Toscana ha ottenuto quasi 215 milioni di euro dal Pnrr per il realizzare 77 case di comunità e 24 ospedali di comunità entro marzo 2026. L’attuazione del piano sta affrontando ritardi significativi e, anche se stiamo meglio della media nazionale, qualche preoccupazione sulla tempestività e sull’efficacia degli allestimenti previsti rimane.
Non c’è dubbio che questi interventi rappresentano una risposta concreta alle esigenze di una maggiore prossimità delle cure e di un utilizzo più appropriato delle risorse ospedaliere. È fondamentale però comprendere la discontinuità che esiste tra casa della “salute” e casa della “comunità”.
Le case della “comunità” hanno bisogno di rivolgersi a comunità “organizzate, proattive, partecipi, inclusive” e di reti di servizi sanitari, sociosanitari e sociali che si integrano su obiettivi di salute condivisi. Il coinvolgimento dei pazienti e dei cittadini ormai sta mettendo radici. Ce lo mostrano numerose esperienze a livello internazionale, nazionale e regionale. La “comunità”, quando esiste realmente, è proattiva, genera energie e opportunità per i singoli individui. Include e supporta, progetta, garantisce la sostenibilità dei servizi e li implementa, previene o almeno mitiga le fragilità e le cronicità, combatte le solitudini e le patologie correlate al disadattamento sociale. E non si pensi solo agli anziani che il problema c’è anche per i più giovani. Valorizzare il ruolo delle comunità è un intervento politico, che alcuni pensano sia guardare al passato e, invece, è di grande attualità e di forte impatto per contrastare una minacciosa involuzione della vita sociale.
La Regione punta molto sulla sanità territoriale, ma per farla funzionare servono non solo strutture ma anche personale. Saranno necessarie assunzioni?
Il personale necessario per le case della comunità è stato definito dal 2022 dal Ministero della Salute con il Dm 77, ma il decreto non specifica un numero fisso di medici anche se prevede che queste strutture ospitino medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e medici specialisti, almeno per le patologie ad elevata prevalenza. Ogni casa di comunità dovrebbe invece includere, questo è stato stabilito, 1 coordinatore infermieristico, 11 infermieri, 8 unità di personale di supporto, di cui 5 amministrativi.
Tali figure saranno implementate, quando le case della comunità saranno operative a pieno titolo, ossia nel 2027. Le risorse per il loro finanziamento non sono ancora state ben definite.
In Italia, la carenza di infermieri è rilevante e non si prevedono miglioramenti in futuro. La scarsità di questa figura professionale sarà un fattore critico per il buon funzionamento delle case della comunità e non solo per loro. La carenza di infermieri è una questione rilevante a livello nazionale. Stime indicano una mancanza di circa 60.000 infermieri nel settore sanitario territoriale italiano, il che avrà effetti sull’implementazione efficace delle case della comunità.
Per la Medicina Generale l’Accordo Collettivo Nazionale non impone un monte ore rigido di presenza per i medici di famiglia. La Regione Toscana, che sta spingendo molto sulle case della comunità, al momento non ha fissato un obbligo rigido di presenza per i medici di medicina generale. C’è un accordo integrativo regionale che incentiva la partecipazione dei medici di medicina generale, ma la loro presenza nelle case della comunità rimane su base volontaria o in base ad accordi con le tre singole aziende sanitarie e i medici possono scegliere di mantenere il proprio studio privato o spostarsi in una casa della comunità, in base a tali accordi. Nei prossimi 5 anni avremo molte difficoltà, perché il numero di medici, che in passato vedeva l’Italia al di sopra della media dei paesi Ocse, si sta riducendo drasticamente e velocemente. Tuttavia i sindacati medici, dopo aver denunciato la difficoltà del momento, hanno anche lanciato un allarme: nel 2035 il numero di medici in Italia sarà in sovrannumero di 40.000 unità. Sembra proprio che nel nostro Paese, almeno quanto ai medici, abbiamo proprio difficoltà di programmazione.
La sanità territoriale è l’unica via per decongestionare ospedali e pronto soccorso?
La sanità è un sistema complesso e multifattoriale dove non c’è mai un’unica causa per un fenomeno e, quindi, un’unica soluzione. Si opera in un ambiente ad alto tasso d’innovazione, con cambiamenti talvolta repentini sia in termini di criticità sia di opportunità. Affermare che un maggiore impegno sul territorio possa alleggerire il carico degli ospedali sembra ovvio, ma non necessariamente accade sempre così. Oggi è il momento di tener conto dei nuovi strumenti che abbiamo, e sempre più avremo, a disposizione e della loro influenza nel modificare quello che tradizionalmente sono stati i luoghi e i tempi di cura e le relazioni tra pazienti, medici e sistema sanitario.
È iniziata l’era della medicina personalizzata. Il luogo della cura non è più un’entità statica (ospedale, clinica, ambulatorio), ma si adatta alle esigenze del paziente. È il luogo in cui il paziente preferisce ricevere la propria cura, trasformando la sanità in un servizio diffuso, flessibile e adattabile. La sanità segue il paziente, non viceversa. La tecnologia digitale permette di coordinare le cure ovunque il paziente si trovi. Il concetto di “point of care”, come luogo dinamico di cura, è una rivoluzione della medicina tradizionale: non esiste più un unico setting di cura, ma una rete di assistenza sanitaria che si adatta al paziente combinando tecnologia, sanità territoriale e ospedale virtuale. L’ospedale sta cambiando e supera le sue mura. L’ospedale diventa in parte virtuale e i pazienti, anche restandone fuori, possono essere monitorati con dispositivi intelligenti. L’accesso alle cure è garantito attraverso la telemedicina, che permette consulenze a distanza senza dover ricorrere al pronto soccorso. L’intelligenza artificiale supporta il paziente nell’autocura della propria condizione.
I benefici della nuova prospettiva del “point of care” sono sì la decongestione degli ospedali e dei reparti di pronto soccorso, ma soprattutto la possibilità di accessi più rapidi alle cure, ovunque i pazienti si trovino, il miglioramento della qualità della vita e della personalizzazione delle cure, la riduzione dei costi sanitari grazie alla prevenzione e al monitoraggio remoto. Il futuro della sanità è ibrido, diffuso e on demand e, anche se può sembrare un paradosso, l’umanità delle cure e delle relazioni ne può guadagnare.