Intervento di Pietro Dattolo, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Firenze
Partiamo da una premessa fondamentale: sul suicidio medicalmente assistito c’è un vuoto legislativo nazionale che non può essere colmato da 21 leggi regionali diverse. Un tema così delicato non può costituire il campo di esercizio dell’autonomia differenziata, si creerebbe un tale caos normativo da riportarci indietro di secoli ad un’Italia pre-risorgimentale. Serve assolutamente una legge nazionale, da questo punto di vista il Parlamento deve prendersi le proprie responsabilità cercando di mettere il tema tra le priorità di questa legislatura.
Bisogna poi ben separare il “fine vita” dal “suicidio assistito”. Non si possono confondere i due piani: il primo offre le migliori cure possibili per lenire dolore e angoscia negli ultimi momenti di vita; il secondo, al contrario, intende porre fine alle “sofferenze” in maniera attiva interrompendo la vita in un preciso momento, scelto consapevolmente.
Le cure di “fine vita” appartengono al gruppo delle cure palliative e raggruppano i trattamenti e gli interventi assistenziali messi in pratica durante la fase di termine della vita di un paziente affetto da gravi patologie dalle quali non è più possibile guarire. Le cure di fine vita si pongono l’obiettivo di accompagnare il paziente e i suoi famigliari nell’ultimo periodo della sua vita attraverso il controllo del dolore e degli altri sintomi manifestati, attraverso il supporto psicologico, il supporto sociale. Le cure di fine vita sono riservate a quei pazienti che presentano una malattia incurabile e progressiva che si trova in fase avanzata e che si caratterizza per una prognosi infausta.
L’espressione “suicidio assistito” è un termine giornalistico. La pratica a cui fa riferimento è quella della “morte volontaria medicalmente assistita”. Tale pratica in Italia è stata depenalizzata dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale e oggi l’accesso a questa pratica è un diritto di tutti e tutte le italiane. A differenza dell’eutanasia, i trattamenti di suicidio assistito o meglio di morte volontaria medicalmente assistita, prevedono che sia il paziente stesso ad autosomministrarsi il farmaco letale. Prima di procedere alla “morte volontaria medicalmente assistita”, il paziente deve farne richiesta, le sue condizioni di salute devono essere verificate da una commissione medica multidisciplinare e deve essere capace di intendere e volere fino all’ultimo secondo.
C’è una domanda che personalmente mi dà pensiero: quanti italiani conoscono e comprendono le cure palliative e la loro azione nel tutelare la sofferenza e la dignità dei pazienti fino alla fine della vita? Purtroppo, queste cure non sono ben comprese e spesso sottovalutate, non solo dai cittadini ma anche da parte delle istituzioni. Ci si potrebbe chiedere perché gli investimenti in questa area specialistica siano sempre difficili da ottenere. Il rischio è che, in assenza di una adeguata rete di cure palliative, il dibattito sul suicidio assistito si muova in un contesto in cui non tutte le alternative sono realmente accessibili ai pazienti.
Bisogna tener presente che la legge toscana non apre le porte ad una nuova procedura medica ma crea un contesto politico-istituzionale in cui operare. Un conto è, comunque, la cornice politica, un altro la procedura medica. Sono cattolico ma posso essere favorevole ad una legge che regolamenti il tema, come richiesto dalla Corte Costituzionale. Ma come medico mai mi proporrei per porre fine ad una vita umana e, come presidente dell’Ordine, chiederei sempre a chi si volesse proporre di spiegarmene le motivazioni etiche. In qualche Paese europeo gli Ordini dei Medici hanno preso posizioni diverse e non sempre chiare, vedi il caso dell’Olanda.
Mi chiedo: è giusto non coinvolgere la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici in questa discussione? E’ una questione che investe profondamente il campo della deontologia medica…
Le persone dovrebbero essere consapevoli che, già con la legge n.219 del 2017, in Italia è possibile rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento medico, anche se ciò comporta come esito la morte. Questo diritto, che ogni medico è tenuto a rispettare, non deve essere confuso con il suicidio assistito: si tratta piuttosto di una tutela contro l’accanimento terapeutico. Il rispetto per l’autonomia individuale è un principio fondamentale, tuttavia deve essere bilanciato con la protezione delle persone più vulnerabili della società. Molti fattori, economici, psichici, sociali e familiari, possono influenzare la decisione di ricorrere al suicidio assistito. La domanda chiave è: siamo realmente in grado di riconoscere e arginare queste pressioni? Come possiamo garantire che chi prende questa decisione sia pienamente libero da tali condizionamenti? Paesi quali l’Olanda, il Belgio e il Canada hanno visto un progressivo ampliarsi delle persone che possono richiedere il suicidio assistito (ad esempio, i pazienti psichiatrici). Il dilemma centrale è che l’introduzione nella società di tale pratica porti ad una sua normalizzazione: non può esistere un “dovere a morire”.
La legge regionale toscana è un’altra cosa. Prevede un periodo di 37 giorni dalla richiesta del paziente all’esecuzione del suicidio assistito. È un tempo sufficiente per valutare la reale consapevolezza su una scelta da cui non si può tornare indietro? Come medici abbiamo il dovere di porci questa domanda e di riflettere sulle conseguenze dei nostri atti professionali non solo sui singoli pazienti, ma anche sull’effetto che essi hanno sulla collettività e sulla percezione della nostra professione nella popolazione. La fiducia nel medico si fonda sul principio che la sua azione deve essere sempre orientata alla tutela della salute, anche attraverso la relazione con il malato e nell’infondere speranza. In tal senso, come conciliare il nostro dovere etico e istituzionale di preservare la vita, e alimentare la speranza, con il fatto che lo stesso medico possa essere coinvolto nella pratica di assistenza al suicidio? Il nostro compito è sempre stato quello di prevenire il suicidio, non di agevolarlo. Questo cambiamento di prospettiva potrebbe ridefinire il ruolo del medico nella società e nella percezione dei pazienti stessi.