Alessandro Capitanini, Direttore SOC Nefrologia Pistoia
ABSTRACT
Nella popolazione generale, l’esercizio fisico moderato è associato a diversi benefici per la salute, tra cui una riduzione del rischio di obesità, di malattie coronariche, di ictus, di alcuni tipi di cancro e di mortalità per tutte le cause. Nella malattia renale cronica (CKD), l’inattività fisica è un rischio indipendente di morte. I benefici per la salute dell’esercizio fisico regolare nei pazienti affetti da CKD includono miglioramenti nelle misure funzionali e psicologiche, come la capacità aerobica e di camminare e la qualità della vita correlata alla salute. Tuttavia, nei pazienti con CKD la riabilitazione all’esercizio fisico non viene prescritta di routine. I pazienti renali sono eterogenei nei diversi stadi della CKD, per cui la valutazione della capacità fisica è obbligatoria per la prescrizione di un programma di esercizio corretto.
Per pianificare programmi di esercizio fisico appropriati nel contesto della CKD, è necessario coinvolgere attivamente figure professionali mirate, poiché molte barriere psicologiche o logistiche possono ostacolare l’attuazione dell’esercizio in questi soggetti. Possono essere proposti diversi approcci, come programmi di riabilitazione a domicilio, allenamento supervisionato o palestra in ospedale.
E’ tempo ormai, come dicono anche le nostre linee guida, che programmi di attività motoria facciano parte integrante dei programmi di cura prescritti dagli staff nefrologici. La valutazione e l’intervento sullo stato funzionale sono centrali nella cura della “persona” in dialisi.
L’inattività fisica, che è associata a un aumento della morbilità, a una perdita della qualità della vita correlata alla salute e a una spesa sanitaria considerevole, è stimata essere la quarta causa di morte a livello mondiale.
L’associazione tra l’inattività fisica e gli outcome negativi è ben nota anche nei pazienti con malattia renale cronica (CKD), in quelli in dialisi e nei riceventi di trapianto renale. Nonostante questo il livello di attività fisica dei pazienti nefropatici risulta molto inferiore rispetto alla popolazione generale, in parte determinato dalla scarsa proattività nefrologica.
Purtroppo la sedentarietà induce una progressiva perdita di funzionalità come dimostrato da Saltin, negli anni 60. Nel suo elegante esperimento sul riposo forzato, in soggetti in età da college, Saltin dimostrò come dopo soli 20 giorni di riposo assoluto si assisteva ad una riduzione fino al 30% del VO2 max (Il test del VO2 max è il test più accurato per determinare l’efficienza di un organismo: identifica la capacità massima del soggetto di utilizzare l’ossigeno in un test di esercizio graduato).
L’organismo tende a “smontare” le strutture che non utilizza per ottimizzare le proprie risorse e tale ottimizzazione è proporzionale all’età. Ad esempio, in soggetti sani e giovani, 28 giorni di inattività inducono la perdita del 2% della massa magra del muscolo del quadricipite mentre sono sufficienti 10 giorni di inattività, in soggetti anziani sani, per indurne una perdita di oltre il 10%.
Il mix fra invecchiamento e patologia renale cronica amplificano i processi catabolici dandoci la spiegazione dell’elevata prevalenza di fragilità dei nostri pazienti.
Il grande problema della fragilità è che non è indicata da un numero, né da un esame del sangue: rappresenta un concetto dinamico, che va ricercata ed intercettata con prove specifiche di funzionalità. Nell’inerzia nefrologica questa ricerca è una chimera, nonostante le evidenze sul suo ruolo nel determinismo della traiettoria della patologia renale.
Perché questo nichilismo, questo ritardo rispetto alla pratica riabilitativa presente nei percorsi di cura di altre patologie? Probabilmente il nostro imprinting specialistico degli anni 50 dello scorso secolo, “la regola le tre elle: letto, lana, latte “per la cura delle malattie renali, fa risentire ancora i propri effetti. Tale regola delle 3L, ossia riposo al caldo con nutrizione a base proteica, che il professor Malizia (primo presidente SIN) citava, nel primo congresso della società italiana di Nefrologia nel 1955, rappresentava il cardine di cura delle malattie renali. Se a questo aggiungiamo le nozioni acquisite sui potenziali effetti fisiopatologici negativi dell’attività motoria estrema (microematuria e proteinuria: la cosiddetta pseudonefrite dell’atleta, oltre alla vasocostrizione renale con riduzione del flusso plasmatico renale), capiamo il perché dell’avversione nefrologica a proporre l’attività motoria.
Non è raro che il nefrologo valuti il paziente quando è già sul letto poltrona della dialisi: quindi è raro valutare la capacità di cammino o di equilibrio. Nelle nostre valutazioni nutrizionale raramente consideriamo l’eventuale edentulia, lo stato socio economico, la presenza di un care giver che cucini o faccia la spesa.
Dal 2002 il nostro gruppo di lavoro della Nefrologia di Pescia e Pistoia, con il progetto di attività motoria per i pazienti emodializzati, ha avviato un percorso multidisciplinare e multiprofessionale che si è posto l’obiettivo di migliorare le capacità fisiche dei pazienti con insufficienza renale terminale. Elemento centrale è stato l’accurata valutazione funzionale (basale e ad intervalli stabiliti) dei pazienti, conditio sine qua non per una personalizzazione dei programmi motori. La popolazione dialitica, infatti, è estremamente eterogenea sia anagraficamente che funzionalmente.
Abbiamo esplorato ed utilizzato molte modalità di intervento: training durante la seduta emodialitica, training in palestra ospedaliera, training in palestra extraospedaliera e training domiciliare.
Nel lavoro iniziale pazienti in lista attiva per trapianto renale, i più giovani e performanti, sono stati valutati con il test del consumo di ossigeno VO2. Tali soggetti sono stati arruolati in programmi di attività aerobica e di resistenza effettuati in una palestra extraospedaliera privata, con programma bisettimanale di circa 1 ora e trenta minuti a seduta (durata complessiva circa 12 mesi). Alla fine del programma i test hanno rilevato significativo miglioramento della fitness cardiorespiratoria. Nei nostri pazienti il sistema muscolare, profondamente decondizionato, rappresentava il fattore limitante più significativo: non si raggiungeva il valore massimo del test per esaurimento muscolare pur avendo ancora una buona riserva cardiorespiratoria.
L’esperienza quotidiana sui soggetti in dialisi, quando siano sottoposti a test da sforzo, evidenzia che difficilmente si riesce a raggiunge la massima capacità a causa proprio dell’esaurimento muscolare.
Ma tutti i pazienti possono e debbono essere arruolati in programmi motori purché si prescrivano programmi adattati alle loro capacità. Allargando la platea peggiorano le condizioni cliniche basali e quindi sono necessari test funzionali più semplici come i test per la forza (handgrip), l’equilibrio e la resistenza (Short Physical Performance Bactery). Nell’economia della vita di un paziente dializzato riuscire a utilizzare il momento della seduta dialitica rappresenta un beneficio enorme: si implementa la compliance, si migliora l’efficienza dialitica e si migliora l’umore dei pazienti. In effetti abbiamo sperimentato l’utilità di esercizi intra dialitici di resistenza e coordinazione, training nella palestra dell’ospedale (nel giorno di non dialisi) ed attività domiciliare basata su schede di attività personalizzata (realizzata dai fisioterapisti) e con l’aiuto di pedometri per il conteggio dei passi quotidiani. Anche in questo caso, dopo un periodo adeguato, risultato di almeno 3 mesi (fig 1), è stata verificata l’efficacia di tali programmi ( in modo proporzionale alla quantità di attività svolta). Migliorava significativamente la distanza percorsa al treadmill test con profondi risvolti positivi sulla capacità di attendere alle attività della vita quotidiana.
Ma perchè é cosi raro trovare centri dialisi in cui tali programmi vengono realizzati?
Le indagini multicentriche che studiano le barriere incontrate da tali progettualità hanno permesso di evidenziare due ordini di problemi: il primo relativo al paziente, dovuto alle condizioni cliniche e allo stato emotivo. L’altro riguardante lo staff medico-infermieristico delle nefrologie. Il personale lamenta mancanza di competenze e presume, del tutto arbitrariamente, lo scarso interesse del paziente a tali attività. In realtà dall’approfondimento di queste valutazioni emergeva come uno staff proattivo spostava un +30% di adesione dei pazienti a programmi riabilitativi sottolineando il gap culturale degli staff nefrologici.
L’elemento determinante del successo del nostro gruppo era stato proprio la creazione di un team dell’esercizio in dialisi (exercise team) : il nefrologo, il fisiatra, il fisioterapista e, figura centrale, l’infermiere della dialisi, rappresentano il gruppo sufficiente e necessario all’elaborazione ed alla realizzazione di idonei programmi di tipo riabilitativo-riattivativo per la popolazione dialitica.
E’ tempo ormai, come dicono anche le nostre linee guida, che programmi di nutrizione e attività motoria facciano parte integrante degli interventi basilari degli staff nefrologici perché la valutazione e l’intervento sullo stato funzionale non incidono meno delle tecniche depurative stesse.
Figura 1: Risultati del test su tapis roulant nel gruppo di dializzati che hanno seguito solo attività di cammino domiciliare (linea tratteggiata) e nel gruppo di di soggetti che hanno effettuato programmi in palestra e attività fisica domiciliare (linea continua), durante il periodo preintervento (da T-12 a T0) e dopo 3 (T3) e 6 (T6) mesi di allenamento personalizzato.