Andrea Bonacchi, Medico, Psicologo Clinico, Psicoterapeuta, Ricercatore a contratto presso l’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica (ISPRO) della Regione Toscana, Presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Sul Sentiero
Bisogno di dialogo. Ha scritto Abraham Maslow, psicologo statunitense noto per la sua teoria della gerarchizzazione dei bisogni: «Quando parliamo dei bisogni degli esseri umani parliamo dell’essenza della loro vita.» I bisogni ed i desideri sono energia motrice delle nostre esistenze e spinta vitale nelle nostre relazioni. Quando riconosciamo i nostri bisogni ed impariamo a tenerne conto la nostra vita diventa per noi più comprensibile e positivamente gestibile. Quando poi impariamo a riconoscere e rispettare i bisogni degli altri acquisiamo una visione della relazione che ci permette di nutrire il benessere comune e di prenderci cura più efficacemente di noi stessi e dell’altro.
Per questo motivo da anni mi occupo come ricercatore di bisogni dei pazienti non soddisfatti dal sistema di cura ed i desideri hanno un ruolo centrale nel mio approccio clinico.
Numerose ricerche che abbiamo condotto in Toscana negli ultimi quindici anni hanno mostrato che quasi la metà dei pazienti intervistati esprimono il bisogno di un dialogo migliore con i medici e percentuali simili si osservano nel desiderio di parlare con altre persone che stanno attraversando la stessa esperienza di malattia. Poco meno del 50% dei pazienti chiedono anche che ci sia un maggior dialogo tra i medici che si prendono cura di loro in ospedale ed il medico di Medicina Generale. Queste percentuali si sono rivelate molto simili sia per i pazienti ricoverati, sia per quelli in day hospital o che frequentano gli ambulatori ed in campi molto diversi quali l’oncologia, l’epatologia o la terapia del dolore cronico, indicando quindi che il bisogno dei pazienti di maggior dialogo con i curanti è un bisogno trasversale e costante.
In un articolo pubblicato nel 2018 sul Journal of General Internal Medicine (dal titolo: “Eliciting the Patient’s Agenda- Secondary Analysis of Recorded Clinical Encounters”) Naykky Singh Ospina e colleghi descrivono la loro ricerca basata sull’analisi di registrazioni di incontri medico-paziente; hanno potuto osservare che il medico dopo aver posto una domanda interrompeva la risposta del paziente mediamente dopo soli 11 secondi, riorientando poi l’incontro e il colloquio verso argomenti di specifico interesse clinico. Nel 2017 sul BMJ una review di Greg Irving e colleghi (dal titolo: International variations in primary care physician consultation time: a systematic review of 67 countries) evidenziava che nei 67 Paesi considerati dagli studi, i pazienti passavano dal medico di medicina generale nel 50% dei casi un tempo inferiore a 5 minuti per ogni visita. Tempi così brevi causano frustrazione in molti pazienti che non si sentono ascoltati e un sovraccarico di stress ai medici.
L’esperienza clinica e la letteratura scientifica concordemente ci indicano che la discrepanza tra il bisogno di dialogo, di ascolto, di informazione dei pazienti e il tempo disponibile crea insoddisfazione, ansia, risentimento negli assistiti e un disagio per i curanti. Il processo di “umanizzazione delle cure” si propone pertanto come un difficile percorso che fondandosi sul principio che “il tempo di relazione è tempo di cura” cerca di riportare al centro il valore della relazione, del dialogo, del racconto del paziente, dell’ascolto.
Per il medico, nel correre frenetico che spesso caratterizza le giornate lavorative, a rimetterci non è solo l’ascolto dei pazienti ma spesso è anche l’ascolto di sé stesso, dei propri bisogni, dei propri sentimenti, della propria fatica e stanchezza, delle proprie insoddisfazioni, dei momenti belli e delle soddisfazioni che riconciliano con il senso e il valore di questa professione.
Inspira, espira. Nei prima anni novanta, quando ero all’inizio dei miei studi universitari di Medicina, a Firenze, nella chiesa di San Miniato, i monaci ospitavano incontri interreligiosi con personalità di grande profondità spirituale e spessore psicologico. Una sera era stato invitato Thich Nhat Hanh, monaco buddhista vietnamita. La chiesa era gremita e le persone assiepate in ogni angolo; ricordo di avere visto, con stupore, anche un mio professore di Patologia Generale arrampicato e appollaiato, come molti altri, sulle impalcature montate lungo le pareti per dei restauri. Ho capito soltanto dopo perché erano presenti così tante persone; questo piccolo monaco, avvolto nei suoi modesti abiti marroni, sprigionava una serena “presenza” e una disarmante dolcezza amorevole. Le sue parole erano semplici e la pratica meditativa di consapevolezza del respiro che ha guidato elementare, eppure, contenevano tutto l’essenziale. Il semplice coesisteva con il profondo. Per questo motivo, quando Thich Nhat Hanh lo scorso anno è morto, il noto filosofo e teologo Vito Mancuso lo ha definito: «il più grande, il più dolce, il più profondo maestro spirituale dei nostri giorni».
È stata questa la mia introduzione alla pratica meditativa che da allora ho portato avanti in tante forme e secondo tante tradizioni, soprattutto laiche, apprezzandone i molti benefici: rilassamento psico-fisico, sviluppo della capacità introspettiva e di un senso di autocentramento, sviluppo e armonizzazione delle qualità umane necessarie per realizzare il nostro e altrui benessere (forza e coraggio, umiltà, concentrazione, lucidità, libertà e responsabilità, …), superamento delle percezioni distorte e illusorie della realtà che possono causare sofferenza, riconoscimento dei propri bisogni vitali, riduzione delle emozioni che causano disagio e attenuazione dei limiti caratteriali.
Di tutte le pratiche meditative una resta nella mia esperienza, da quel primo incontro con Thich Nhat Hanh, fondamentale: la meditazione di consapevolezza che consiste nel dare una completa attenzione, nel qui ed ora, a qualcosa (che può essere il respiro, il camminare, il bere un tè o le parole di qualcuno che ci sta parlando). Il dono più bello di questa pratica per me è stato un aiuto a vivere pienamente il momento presente e una crescita della capacità di ascoltarmi (di accogliere e riconoscere i miei pensieri, le mie preoccupazioni, le mie emozioni, i miei desideri…) e di ascoltare empaticamente gli altri.
Ad ogni persona che mi chiede come vivere e lavorare in modo più consapevole e sereno io consiglio la lettura del libro di Thich Nhat Hanh “La pace è ogni passo”; lo considero una porta verso un nuovo modo di esserci, con noi stessi e con gli altri.
Praticare il cambiamento. Dal mio lavoro ho compreso una cosa chiaramente: se vogliamo cambiare il nostro modo di essere e di comportarci non basta intuire in che direzione muoverci ma è necessario adottare delle pratiche che attraverso l’allenamento costante ci permettano di andare in quella direzione.
È auspicabile che vi sia una attenzione maggiore al dialogo medico-paziente, all’ascolto dell’altro e all’ascolto di sé, ma in attesa che tutto questo venga favorito da una migliore formazione in tal senso e da una riorganizzazione del sistema assistenziale che supporti l’umanizzazione delle cure, è affidata di fatto al singolo medico la responsabilità di curare e alimentare il dialogo e l’ascolto nel proprio lavoro clinico quotidiano. E la pratica meditativa può essere di grande aiuto per non essere schiacciati dal carico di lavoro, dallo stress, dalla mancanza di tempo da dedicare alla relazione.
Inspira, espira, ascolta. Suggerisco questa piccola pratica: tra un paziente e l’altro (anche e soprattutto quando ci sembra di non avere tempo ed energie) prendersi un attimo per fare pochi respiri profondi e consapevoli ripetendo mentalmente le parole: “inspira, espira, ascolta”. L’ascolto di noi stessi e l’ascolto dell’altro possono crescere dentro di noi, sono semi che vanno coltivati con attenzione e cura.