Paola Attanà, Irene Betti, Veronica Fibbi, Federico Parisi, Tania Chechi
S.C. Cardiologia – Ospedale Santa Maria Annunziata – Firenze
ABSTRACT
Lo scompenso cardiaco ha assunto una dimensione epidemiologica sempre più rilevante nella popolazione generale. Il numero di ospedalizzazioni in costante aumento ha reso necessario ridefinire questa sindrome con conseguente e sostanziale variazione dell’approccio diagnostico, terapeutico e gestionale.
Parole chiave: scompenso cardiaco, frazione di eiezione, terapia farmacologica, algoritmo, linee guida.
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L’evolversi delle conoscenze e il consensuale perfezionamento di procedure diagnostiche e terapeutiche specifiche hanno sensibilmente modificato la prognosi di gran parte delle malattie cardiovascolari, riducendo la mortalità in acuto e migliorandone la sopravvivenza a lungo termine. In conseguenza di ciò, lo scompenso cardiaco (SC), evoluzione cronica comune di molteplici patologie cardiovascolari, ha assunto una dimensione epidemiologica sempre più rilevante nella popolazione generale.
Sebbene la farmacopea dello SC disponga di terapie farmacologiche e non farmacologiche consolidate e di comprovata efficacia, il numero di ospedalizzazioni in costante aumento ha reso necessario ridefinire questa sindrome complessa ed eterogenea con conseguente e sostanziale variazione dell’approccio diagnostico, terapeutico e gestionale.
La recente nuova definizione universale di SC, che sintetizza i modelli concettuali precedentemente adottati in un nuovo lessico universalmente condiviso, è stato il primo atto di un cambiamento di approccio successivamente ulteriormente concretizzatosi nella stesura delle linee guida ESC del 2021.
Definito come sindrome clinica con sintomi e/o segni causati da una anomalia strutturale e/o funzionale del cuore, supportata da livelli elevati di peptidi natriuretici e/o dall’evidenza obiettiva di congestione polmonare o sistemica, lo SC è stato ulteriormente classificato in funzione del valore della frazione di eiezione del ventricolo sinistro (FE) in SC a FE ridotta (FE fino al 40%), SC con FE lievemente ridotta (FE del 41-49%), SC con FE conservata (FE di almeno 50%) e SC con FE migliorata (aumento di almeno 10 punti da una FE iniziale ≤40% con una seconda determinazione di una FE >40%).
L’approccio farmacologico allo SC, fino ad epoca recente è stato sostanzialmente verticale con l’implementazione della terapia prevista secondo una modalità a step successivi che prevedeva la progressiva titolazione di betabloccanti, inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) e diuretici.
In questa revisione generale, alla luce della nuova definizione di SC e con le acquisizioni dei nuovi studi, oltre all’introduzione di nuove classi di farmaci, ovvero gli inibitori del recettore dell’angiotensina e della neprilisina (ARNI) e gli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i), l’approccio terapeutico raccomandato dalle linee guida ESC del 2021 diventa orizzontale con l’introduzione in terapia di tutte e 4 le categorie di farmaci approvati, contemporaneamente. È una strategia farmacologica composita upfront, che può ulteriormente essere ottimizzata in funzione del fenotipo clinico specifico del paziente e della presentazione clinica di esordio.
Quali sono quindi i protagonisti che si collocano attualmente in prima linea nell’approccio farmacologico dello SC? Suddividendoli in base alle caratteristiche del meccanismo di azione, possiamo schematicamente identificare 4 gruppi cardine: il gruppo inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACEi) – inibitori del recettore 1 dell’angiotensina (ARBs, detti anche sartani) – ARNI, i betabloccanti, gli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi (MRAs o antialdosteronici) e gli SGLT2i o gliflozine.
Il primo gruppo è rappresentato da farmaci storici, gli ACEi e gli ARBs, e da farmaci più recenti, gli ARNI. Gli ACEi sono stati la prima classe di farmaci ad impatto favorevole sulla prognosi del paziente con SC, dimostrando di essere in grado di ridurre mortalità e morbilità oltre che migliorare la sintomatologia. Sono attualmente raccomandati in classe IA in tutti i pazienti con SC, salvo controindicazioni o intolleranza. Sempre in questo primo gruppo si collocano gli ARB, il cui ruolo si è modificato negli ultimi anni, contestualmente allo sviluppo dei nuovi farmaci e dei nuovi approcci per lo SC. Attualmente essi sono raccomandati come prima scelta esclusivamente nei pazienti che non possono assumere ACEi o ARNI. Infine, con un meccanismo di azione associabile ai precedenti, in questo primo gruppo di farmaci per lo SC collochiamo gli ARNI, che agiscono nella modulazione combinata di due dei principali meccanismi coinvolti nella fisiopatologia dello SC: l’attivazione del RAAS e la ridotta sensibilità al sistema dei peptidi natriuretici. Gli ARNI sfruttano il duplice effetto inibitorio derivante dall’associazione del sacubitril, inibitore della neprilisina (una metallopeptidasi responsabile di parte della degradazione dei peptidi natriuretici), con il valsartan, ben definito antagonista del RAAS. Questa associazione farmacologica ha dimostrato di essere estremamente efficace sia nella riduzione di mortalità e morbilità nello SC a funzione ridotta che nel miglioramento dei sintomi. L’utilizzo di sacubitril–valsartan è raccomandato infatti in sostituzione di ACEi o ARBs in tutti pazienti con SC a ridotta FE che restano sintomatici nonostante terapia medica ottimale; in riferimento alle recenti linee guida, peraltro, il farmaco può essere considerato anche come terapia di attacco in pazienti naive.
Il secondo gruppo di farmaci è rappresentato dai betabloccanti, anch’essi farmaci storici che, agli albori, sono stati spesso oggetto di controverse valutazioni in quanto la loro azione depressiva sulla contrattilità miocardica ne rendeva poco razionale l’uso in corso di SC. Oggi è ormai ampiamente dimostrato il loro impatto favorevole sulla storia naturale dello SC, in termini di miglioramento dei sintomi e riduzione di morbilità e mortalità. La terapia betabloccante è raccomandata in tutti i pazienti con SC a FE ridotta che siano clinicamente stabili, introdotta a basso dosaggio da titolare gradualmente fino alla massima dose tollerata.
Il terzo gruppo è rappresentato dagli MRAs, farmaci che bloccano il recettore che lega l’aldosterone. Attualmente disponibili sono il canrenone (metabolita attivo), lo spironolattone (profarmaco che viene poi degradato in metaboliti attivi fra cui il principale è il canrenone), il canrenoato di potassio (forma salificata del canrenone) e l’eplerenone. L’uso degli MRAs è raccomandato in tutti i pazienti con SC in aggiunta ad ACEi e betabloccanti, per la dimostrata capacità di migliorare i sintomi e di ridurre mortalità e ospedalizzazioni.
Infine, il gruppo degli SGLT2i o gliflozine, dapaglifozin ed empaglifozin: sono farmaci di recente introduzione il cui meccanismo d’azione è essenzialmente la inibizione del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2, che si traduce in una inibizione del riassorbimento renale di glucosio a livello del tubulo prossimale con conseguente incremento dell’escrezione sia di sodio che di glucosio. Questa azione determina una riduzione del volume intravascolare e del contenuto di sodio nella tonaca muscolare dei vasi arteriosi. Inizialmente concepiti come farmaci per il trattamento dell’iperglicemia nei pazienti con diabete mellito di tipo 2, hanno dimostrato nei pazienti diabetici un miglioramento degli esiti renali ma anche una inattesa e significativa riduzione della incidenza di SC. Questo dato ha indotto la ricerca clinica a verificare la loro azione sullo SC sia in pazienti diabetici che non diabetici e gli studi hanno successivamente dimostrato con robuste evidenze la loro efficacia, in termini di riduzione di mortalità e morbilità per SC, indipendentemente dalla presenza o meno di diabete. Gli SGLT2i quindi rappresentano un nuovo paradigma di cura e nelle ultime linee guida sono raccomandati in tutti i pazienti con SC a FE ridotta in aggiunta alla terapia medica ottimale.
Nel nuovo approccio terapeutico, farmaci raccomandati in classe II, quali ivabradina, digossina e idralazina/isosorbide dinitrato sono da considerarsi solo in pazienti selezionati in caso di persistenza dei sintomi nonostante terapia farmacologica ottimale e/o, se indicato, supporto con device.
I diuretici infine, rappresentano il presidio più efficace nel migliorare l’emodinamica e la clinica dei pazienti con segni e sintomi di congestione. Il goal della terapia diuretica è di raggiungere e mantenere uno stato di euvolemia con la minore dose di farmaco efficace.
Quale quindi l’approccio farmacologico globale indicato dalle linee guida per lo SC? In funzione della classificazione sulla base della FE, possiamo schematicamente sintetizzare:
A) SC con FE ridotta: la terapia farmacologica in questa classe di pazienti è condivisa e indiscussa; si avvale dell’associazione di quattro gruppi di farmaci di comprovata validità nella riduzione di mortalità cardiovascolare e tasso di ospedalizzazioni (Figura 1).
B) SC con FE lievemente ridotta: in questa classe di pazienti viene sostanzialmente riproposta la terapia per SC a FE ridotta, sebbene con grado di raccomandazione più basso e più basso livello di evidenza (Figura 2).
C) SC con FE conservata: lo SC con FE conservata è definito dalla presenza di sintomi e segni di SC con una FE >50% in assenza di precedenti riscontri di FE ridotta o di anomalie strutturali e/o funzionali, con presenza di disfunzione diastolica/incremento delle pressioni di riempimento ventricolare e incremento dei peptidi natriuretici. Questa entità clinica comprende un ampio spettro di condizioni patologiche a varia eziopatogenesi; in tal senso nelle ultime linee guida assume un ruolo sostanziale l’identificazione e il trattamento terapeutico della patologia cardiaca sottostante con relativi fattori di rischio e delle comorbilità coesistenti (Figura 2).
Merita una menzione a parte l’intenso dibattito scaturito nella comunità scientifica in seguito ai risultati preliminari dello studio Emperor-Preserved, che ha dimostrato l’efficacia di una gliflozina, l’empaglifozin, quale farmaco “disease modifying” in pazienti con SC a FE conservata. Di acquisizione successiva infine i dati derivanti dallo studio DELIVER, in cui sempre una gliflozina, dapaglifozin, si è dimostrata efficace nella riduzione del rischio di morte cardiovascolare e del peggioramento dello SC, sia in pazienti con SC con FE conservata che in pazienti con SC con FE lievemente ridotta.
D) SC con FE migliorata: in questa categoria di pazienti è raccomandata la prosecuzione della terapia in atto per lo SC a FE ridotta; assume un ruolo rilevante il monitoraggio clinico e strumentale.(Figura 2).
In conclusione:
il nuovo approccio farmacologico per lo SC prevede una terapia composita determinata dall’integrazione di farmaci di storica validità terapeutica con nuovi farmaci il cui utilizzo è fortemente supportato dai recenti grandi trials clinici;
l’approccio farmacologico, fino ad epoca recente sostanzialmente verticale, diventa orizzontale, ovvero si avvale di una terapia farmacologica composita upfront, individualizzata per paziente secondo presentazione clinica di esordio e finalizzata a ridurre la mortalità, ridurre le ospedalizzazioni ricorrenti e migliorare lo stato clinico, la capacità funzionale e la qualità di vita dei pazienti affetti da SC.