Riccardo Lo Parrino, Neuropsichiatra infantile – Direttore UFS Salute Mentale Infanzia e Adolescenza di Firenze 4-5 – Dal 2011 coordina il Gruppo multidisciplinare territoriale per lo scompenso psichico in adolescenza dell’UFC SMIA di Firenze. Ha una specifica formazione nell’intervento precoce negli esordi psicotici.
Abstract. Il suicidio continua a rappresentare in Italia, come a livello mondiale, una delle più frequenti cause di morte in adolescenza. Gli operatori dei servizi di salute mentale dell’età evolutiva sono da diversi anni impegnati in un lavoro con un numero crescente di giovani e giovanissimi ragazzi e ragazze “suicidali” (l’American Psychological Association definisce la suicidalità come “il rischio di suicidio, generalmente indicato da ideazione o intenzionalità suicidaria e con particolare evidenza di un ben elaborato piano suicidario”). Come afferma l’OMS, le cause del suicidio sono multifattoriali. Pertanto la prevenzione del suicidio passa anche attraverso una forte attenzione pubblica a fattori sociali, ambientali ed economici. Ai sanitari spetta il compito di operare con impegno, passione e competenza, e con il massimo sforzo organizzativo possibile per aiutare gli adolescenti affidatisi alle loro cure a sottrarsi al richiamo malvagio della morte come rimedio unico a un dolore lacerante e a intravedere una via d’uscita diversa, tortuosa e faticosa, che apre tuttavia a una vita ancora tutta da scrivere.
Parole-chiave: adolescenza, suicidio, salute mentale, suicidalità, dolore mentale
“A un osservatore, non quel senso di morte avrebbe fatto impressione, ma quella giovinezza vivente nel dominio della morte…”
(Giulio Bedeschi)
Don’t forget you’re precious
(Alabaster DePlume)
Philippe Gutton, psichiatra e psicoanalista, fondatore negli anni ‘80 del novecento della rivista “Adolescence”, propone quasi un distillato di un lavoro trentennale di clinico e studioso, un interessante accostamento fra il lavoro dell’adolescente, impegnato negli articolati processi di soggettivazione mossi dall’irrompere della pubertà (“il pubertario”) e l’attività dell’artista che, a partire dalla materia grezza, realizza un’opera d’arte compiuta e auspicabilmente bella. In altre parole, per l’autore l’adolescenza è “un atto di creazione e anche un’esperienza di creazione”. Allo sviluppo di tale tesi egli dedica l’opera, tradotta anche in Italiano, “Le génie adolescent” (2008). Tesi che sintetizza una visione della costruzione di sé in cui si integrano dinamicamente fattori interni (biologici e psicologici) ed esterni (l’ambiente, le relazioni), e dalla quale origina l’approccio evolutivo ai disturbi molteplici e proteiformi di questa età della vita.
Cosa accade dunque, in questa prospettiva, nella sofferenza psichica più grave? I processi che danno forma alla soggettivazione si affievoliscono, inaridiscono o si bloccano, come può similmente accadere alla vena creativa dell’artista. Il potenziale insito nella materia grezza non si trasforma. Nelle forme più estreme il ragazzo o la ragazza soccombono, non più bambini, ma non ancora adolescenti: la metamorfosi non riesce a compiersi pienamente e l’accesso al libero e pieno dispiegarsi delle nuove potenzialità incise nel corpo genitale è impedito. Compare il dolore mentale, non di rado in realtà già in precedenza conosciuto, un dolore acuto, intenso, schiacciante, che può occupare uno spazio sempre maggiore nella mente adolescente, sino a saturarlo. Il confronto con i coetanei, immagini di una vitalità desiderata e irraggiungibile e la concreta esclusione o autoesclusione dal gruppo, da relazioni amicali, possono gettare l’adolescente in una solitudine disperante. Ecco che la creazione non solo non procede, ma può trasformarsi nel suo contrario, in distruttività, espressione di un dolore e una rabbia che si compenetrano. Le relazioni ancora esistenti vengono attaccate e recise, quelle con i coetanei così come quelle con i genitori e con adulti significativi (educatori, allenatori, insegnanti). La distruttività colpisce ogni aspetto della vita psichica, il dolore dilaga, non contenibile né sostenibile ed è il corpo a farne le spese, perché è a quel corpo incapace di essere come lo si vorrebbe, che ogni colpa viene attribuita. Il corpo viene trascurato, non lavato, oppure tagliato, percosso, scarificato, ustionato, non nutrito, lasciato deperire come un oggetto di scarto. Fino a cercarne l’annientamento. La morte corteggia questi adolescenti con uno sguardo perfido e ammaliante. Tuttavia la vita richiama, reclama il suo spazio.
Molti giovani di cui ci occupiamo nel nostro servizio stazionano a lungo in questa condizione lacerante. Sono funamboli, loro malgrado, che camminano vacillando su un filo sospeso nel vuoto, esposti anche a un esile venticello, che può essere fatale. Esistenze fragili, molto spesso precocemente ferite, per cui uno sguardo, un apprezzamento non gradito, una battuta un po’ aspra, un modesto fallimento scolastico, magari un voto un po’ inferiore all’atteso, un’attesa troppo lunga per un’uscita serale, una chat che non arriva, confermano la propria assoluta mancanza di valore. Il desiderio di vita è mortificato, la morte, sfacciatamente, esercita il suo fascino crudele.
Le ragazze e i ragazzi che arrivano al nostro servizio, talvolta dopo molto tempo, ne parlano con noi, operatori della salute mentale, medici, psicologi, educatori, infermieri, alcuni si confidano con i loro genitori, più raramente con qualche coetaneo. Sono richieste d’aiuto, che vanno sempre attentamente prese in considerazione. E’ la comunicazione all’altro di un dolore che solo la morte potrebbe eliminare. Mantenere il dialogo aperto con questi nostri giovani pazienti, rimanere saldi, ascoltare con mente partecipe, non distrarsi, resistere alla tentazione di ritrarsi che innegabilmente il contatto ravvicinato con la ricerca della morte volontaria in una vita nascente può suscitare, trasmettere con ogni senso, con il volto, gli occhi, la voce, le parole, la nostra vicinanza a quel dolore, la nostra autentica preoccupazione per quei pensieri, è ciò che ci impegniamo a fare ogni giorno nel nostro lavoro. Perché chi soffre a tal punto deve sapere e soprattutto sentire di non essere solo. Parliamo loro di sicurezza, della necessità di garantirla in ogni modo, con ogni mezzo e prima di ogni altra cosa.
Se l’ideazione di morte è pervicace, incontrastabile, ha preso il dominio assoluto, è necessario ricorrere al ricovero ospedaliero.
Generalmente il ricovero dà un sollievo, anche per chi all’inizio è recalcitrante, cerca di resistere, e dice che tutto è inutile, che nessuno potrà essere d’aiuto. Talvolta i genitori sono spaventati da un ricovero in un reparto psichiatrico, sia pure per adolescenti, ma poi prevalgono la paura e l’angoscia che la scomparsa di un figlio o di una figlia può suscitare.
Poi i ragazzi/e vengono dimessi e tornano al nostro servizio. Il lavoro riprende, o meglio continua.
E’ un momento delicato quello della dimissione, perché è il ritorno alle difficoltà di sempre.
Per alcuni di loro procediamo con l’inserimento nel nostro centro diurno, il “Percorso Verde”. Si tratta di uno spazio di accoglienza che può essere anche giornaliera, in cui operano educatrici (con proiezione di 2 medici e presenza stabile di una psicologa) con una grossa formazione e alle spalle anni di esperienza nel lavoro con adolescenti con disturbi psicopatologici gravi e complessi. Al “Percorso Verde” il programma è strettamente personalizzato. Può accadere che l’attività con il ragazzo/a, prima di accedere a esperienze di condivisione in piccolo gruppo, resti a lungo individuale se il contatto con gli altri non è sin dall’inizio sostenibile. L’intervento delle educatrici non resta limitato allo spazio circoscritto del centro diurno, ma si proietta all’esterno, verso i diversi ambiti di vita degli adolescenti, scuola in primo luogo, per favorirne l’accesso, con un’attenzione particolare a modulare l’esposizione ai diversi possibili fattori di stress. Il programma viene discusso e definito dal team curante con i genitori e, soprattutto, con i ragazzi/e, a cui viene rimandato il senso di una comprensione profonda delle loro difficoltà e dei loro bisogni e nel contempo viene trasmesso un messaggio, di fiducia nelle loro potenzialità. Uno degli obiettivi principali è infatti che il sentimento del proprio valore e della propria efficacia inizi o riprenda a germogliare.
I giovani “suicidali” restano in carico al nostro servizio per qualche anno. Questi funamboli continuano a camminare sul filo sopra il precipizio per molto tempo. Alcuni mettono in atto agiti ripetuti, entrano ed escono dal pronto soccorso, dal reparto di psichiatria del “Meyer”.
Alcuni sopravvivono ad attentati allo loro sopravvivenza violenti (precipitazione, impiccamento, ingestione di farmaci a dosi letali o di sostanze tossiche). Non si può mai abbassare la guardia, la presenza degli operatori deve essere assidua.
Per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che abbiamo avuto in cura il cammino sulla fune è diventato meno pericoloso, tratto tratto essi hanno smesso di ascoltare l’orripilante richiamo di quella che ha assunto le sembianze di una “megera sdentata (Giulio Bedeschi), hanno mosso passi sempre più sicuri, soprattutto hanno imparato a costruirsi strumenti di protezione, una corda a cui rimanere agganciati in caso di caduta ed hanno infine posato i piedi sulla terra solida. Il giovane artista ha completato l’opera: ora si può guardare allo specchio e vedervi riflessa l’immagine di un giovane uomo o di una giovane donna che è diventato quello che è, non altro, e ne è soddisfatto. Quel corpo maturo esprime ora enormi possibilità, non teme più lo sguardo degli altri, anzi se ne compiace, è un corpo da mostrare, desideroso di farsi vedere. Le speranze, i desideri, l’immaginazione creativa possono finalmente dispiegarsi liberi. Questo recuperano i giovani che “guariscono”, la libertà.
E’ possibile pensare a questi adolescenti, che trascorrono molti degli anni che per i più sono fra i migliori della vita, immersi nel dolore come a dei grandi lottatori, a dei guerrieri, un po’ come gli eroi e le eroine dell’epica antica: combattono per se stessi, si assumono, aderendo per anni a cure complesse, una responsabilità in prima persona per le loro vite. E’ anche possibile dirglielo. Essi ascoltano intensamente, per lo più non replicano niente; qualcuno mostra un certo stupore, ma poi si ricompone: “devi essere fiero/a di ciò che hai fatto e stai facendo per te stesso, questo significa essere grandi, assumersi responsabilità in prima persona, tu lo stai facendo con coraggio, per la tua vita”.
Il pensiero non può non andare a chi, purtroppo, si è abbandonato all’abbraccio malvagio della morte e non si è concesso di aspettare un domani impensabile. Questo è avvenuto molto raramente nel nostro servizio, ma è avvenuto.
Tutto il servizio ne è uscito turbato, massimamente chi con questi adolescenti e i loro genitor ha avuto un rapporto diretto. Il gruppo si è riunito in una riflessione e un’analisi condivise, anche con supervisori esterni, su aspetti prevalentemente tecnici, clinici e organizzativi. E’ stata la dimensione corale di tali incontri, però, il clima di attenzione partecipe e vicinanza che vi si è respirato, l’ascolto interessato fra colleghi, che ha sostenuto i singoli operatori e li ha stimolati ad andare avanti nel lavoro con determinazione, energia e passione.