Di Marco Geddes da Filicaia
Nella sua lunga presidenza dell’Ordine dei Medici di Firenze, dal 1988 al 2017, Antonio Panti ha rappresentato un riferimento per i medici non solo toscani.
Panti ha avuto la capacità infatti di svolgere un ruolo di confronto e di stimolo alle politiche sanitarie regionali e nazionali. La sua è stata una personalità non solo “ordinistica”, ma interessata ai molteplici aspetti della sanità e della società.
É impossibile, ricordando Antonio Panti, non andare indietro negli anni, alle prime volte in cui l’ho incontrato, ci siamo confrontati o abbiamo collaborato, e ripensare al lungo percorso, caratterizzato da rilevanti trasformazioni nella società italiana e in particolare nella sanità, che lo ha visto partecipe e, in molte occasioni, protagonista. Erano i primi anni Settanta e all’Ordine dei Medici di Firenze si tenevano le elezioni per il rinnovo del Consiglio. Assistevo allo spoglio per una lista, marginale, minoritaria e alternativa. Una presenza “di bandiera”. Partecipazione notevole, un nominativo era sempre presente nello spoglio, quello di Giovanni Turziani, il presidente dell’Ordine.
Seguivano, con un numero identico di preferenze, tre cognomi di medici, tutti che iniziavano con la P. Turziani si avvicinò a me, con aria bonaria e di intesa, e mi sussurrò all’orecchio, con tono ammirato per il successo dei colleghi appartenenti alla lista da lui capeggiata: “Paci, Panti, Parpagnoli. Tre tizzi d’inferno!”.
Incontrai poi Antonio Panti in lunghe nottate di confronto sulla riorganizzazione dei rapporti convenzionali con i medici di medicina generale e sulle incompatibilità fra dipendente di un ente e medico curante: una serie di provvedimenti e accordi che precedettero la Riforma sanitaria. Gli incontri, nei quali rappresentavo la parte pubblica e Antonio quella sindacale, si svolgevano all’Assessorato alla Sanità della Regione Toscana, collocato allora in poche stanze al numero 16 di Piazza della Libertà. Panti era un sindacalista affabile, dotato di una memoria infallibile delle leggi, regolamenti, precedenti accordi sindacali e con una ostinazione nel definire, spiegare, contrattare che gli era valsa la definizione, espressa con timore e ammirazione, di “mastino”.
Nella sua lunga presidenza dell’Ordine dei Medici di Firenze, dal 1988 al 2017, ha rappresentato un riferimento per i medici non solo toscani. Panti ha avuto la capacità infatti di svolgere un ruolo di confronto e di stimolo alle politiche sanitarie regionali e nazionali. La sua è stata una personalità non solo “ordinistica”, ma interessata ai molteplici aspetti della sanità e della società, un riferimento per le riflessioni etiche e per la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico e artistico della sanità, presiedendo per anni il Centro di Documentazione per la Storia dell’Assistenza e della Sanità Fiorentina e opponendosi con ostinazione al suo progressivo smantellamento.
Persona colta, appassionato di cinema, di arte, frequentatore di aste e dei mercatini di antiquariato a cui ci incontravamo presso le bancarelle di libri.
Si può ben dire che Antonio abbia attraversato con immutata attenzione e crescente sensibilità la gestazione, la nascita e l’evoluzione del Servizio sanitario nazionale.
Fino all’ultimo Panti è stato un attento critico del decadimento del Sanità italiana, contestando ai partiti, ai loro recenti programmi elettorali: “… la diffusa, desolante carenza culturale: niente sui problemi etici e politici dell’immanente I.A., nessun accenno alla questione della cosiddetta Planet Health” , e scriveva, in riferimento alle ultime elezioni nazionali: “… manca ogni accenno alla sanità come parte della sicurezza globale secondo le indicazioni dell’OMS. Insomma non affatichiamoci sul futuro [si evince da questi programmi] che invece è già oggi.” Antonio affermava, con convinzione, che “Il SSN è possibile solo con la fiscalità generale e la tassazione progressiva”.
L’ultima volta che ci siamo visti in settembre, per andare a cena da comuni amici, avevo da poco letto alcune sue considerazioni sul fine vita. Panti aveva scritto in merito alla necessità di un nuovo rapporto deontologico tra medicina e morte: “Affrontare la questione da questo punto di vista significa accettare che la autodeterminazione della persona non si arresti di fronte alla propria morte… il punto fondamentale è che stiamo parlando del prevalere della decisione del cittadino non di quella del medico o di qualsiasi altro decisore. E anche che la società ha il diritto di chiedere alla medicina, le cui conquiste sono responsabili di uno stato di vita insopportabile o di una terminalità inaccettabile per il soggetto, di riparare a questa situazione che la persona vive come torto… La deontologia considera l’accanimento terapeutico come un vero errore, una futilità e, nello stesso tempo, obbliga i medici a responsabilizzarsi di una morte quanto più serena o meno sofferta possibile; in una parola assistere il paziente fino alla fine della vita e considera un comportamento gravissimo l’abbandonarlo”.
Gli dissi, ripensando a queste affermazioni, che ammiravo il fatto che egli fosse negli anni “insavito”. Antonio capi “rinsavito” e mi disse che forse avevo ragione. Gli specificai che avevo invece usato il termine “insavito” per evidenziare che con l’avanzare degli anni la sua saggezza era aumentata. Cosa che capita con il progredire degli anni. Ma solo di rado.
Le fotografie sono state cortesemente fornite dall’Ordine dei Medici di Firenze.